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domenica 14 gennaio 2018

Terremoto del Belice. Ricordare, narrare, ripetere ... per non dimenticare

Cinquant'anni sono tanti nella vita di un uomo e sono un nulla nello scorrere della Storia dell'uomo, dell'essere umano.
Quella mattina del 14 gennaio 1968, io diciottenne stavo a letto da alcuni giorni perchè avevo la febbre; ero rientrato a Contessa da Palermo, dove frequentavo l'ultimo anno della scuola superiore, l'11 gennaio perché i miei genitori mi avevano telefonicamente informato che era deceduto il mio nonno paterno di cui io porto lo stesso nome. 
Tipica cucina del pre-terremoto
nei paesi del Belice
In serata quando arrivai in paese c'era molto freddo e poi nella notte cadde molta neve. Il 12 gennaio i miei genitori non vollero che lasciassi il letto a causa di quella febbre piuttosto alta e appresi che il funerale del nonno sarebbe  avvenuto in forma -come dire- parziale: la bara sarebbe stata portata nella vicina Chiesa Madre dove papàs Kola Bufalo e mio zio papàs Gaspare Schirò avrebbero celebrato l'ufficio funebre e sarebbe stata poi sistemata in una cappella laterale in attesa che cessasse di nevicare e trasportarla in cimitero, che come è noto sta nella parte alta dell'abitato (a Giarruso).
Il 13 gennaio per l'intera giornata la neve continuò a cadere e nè il medico condotto-ufficiale sanitario, dott. Giuseppe Amico, nè il sindaco Francesco Di Martino, nè i familiari ritennero di dover rimuovere la bara del nonno dalla cappella laterale della Chiesa dove era stata posteggiata.
Il 14 gennaio, la neve per le strade si era trasformata in ghiaccio duro e aveva livelli di 60-70 centimetri e in alcune zone di un metro. Si convenne tuttavia di dover fare qualcosa: la bara non poteva ancora stare in Chiesa. 
Non so a chi venne l'idea, anche perchè continuavo a stare a letto a causa della febbre, ma fra medico, sindaco, papàs e familiari si convenne di porre la bara su un rimorchio agricolo e farlo trainare da un trattore fino al cimitero. 
Cosi avvenne. Il trattore dello zio Luca attraversò le strade ghiacciate e raggiunse il cimitero dove la tumulazione fu tuttavia rinviata a condizioni di tempo migliorate.

Quelli sopra riportati sono i primi pensieri che mi tornano in mente quando viene evocato il mese di gennaio 1968. Pensieri che non finiscono qui.
La febbre perseverava e mi teneva, ancora in quel 14 gennaio, a letto. Avevo mangiato qualcosa preparatomi da mia madre quando più o meno alle 13,30 di quella domenica il letto letteralmente iniziò a danzare. Si trattò di attimi che però sembrarono non finire mai. 
Nessuno, per quanto sappia e ricordi, abbandonò le abitazioni. 
Il Gazzettino di Sicilia e la televisione dopo qualche ora dall'evento riferirono di una scossa di terremoto nella Sicilia Occidentale senza caricarla nè di importanza nè di conseguenze. Dopo un'ora, poco prima delle 14,30, da quella scossa ne seguì un'altra, anche questa sottovalutata rispetto a quanto sarebbe seguito nella notte.
Prima delle 17,oo ancora una scossa fu avvertita, ma nessuno, proprio nessuno, pensò che fosse opportuno adottare delle precauzioni su come e dove trascorrere la notte. 
La radio nei suoi notiziari riferiva di quelle scosse come fatti insignificanti e marginali.

La giornata era stata piuttosto lunga con quel corteo funebre inusuale (rimorchio trainato da trattore) e con i familiari e parenti che per l'intero pomeriggio si erano riuniti in casa del nonno a commentare e a ricevere le visite dei vicini di casa, dei cugini e conoscenti e pertanto, dopo le 21,oo, pure i genitori si misero a letto.

Il peggio doveva ancora arrivare.
Il 15 gennaio, alle 2,30 della notte, a Contessa e in tutta la Valle i letti si mossero preceduti da una sorta di boato. Tutti a casa ci interrogammo su cosa stesse succedendo. Ci vestimmo, abbiamo raccolto alcuni indumenti e carte che ritenevamo utili, ma ... piuttosto che abbandonare la casa ci sedemmo a commentare quell'esperienza che stavamo attraversando. Dall'esterno, dove la neve ghiacciata era più che mai solida, si udivano voci e rumoreggiare indistinti. 
Attorno alle 3,oo la natura abbandonò le leggi dall'uomo preferite. Il pavimento mi sembrò che non fosse piano: volevo raggiungere la porta di accesso alla scala ed esso  (il pavimento) mi sembrò che si fosse messo in salita, inclinato verso l'alto. Con mio padre e mia madre (mia sorella studiava fuori sede) ci siamo presi per mano e abbiamo raggiunto lo Spiazzo Greco, già affollato di gente.
Ciò che ci ha colpito e dato motivi di riflessione, non solo a noi ma un pò a tutti i contessioti, è stata la casa di abitazione di mio nonno che dava sullo Spiazzo Greco ed era in gran parte crollata. Era una casa adiacente alla nostra.

Nello spiazzo Greco la gente si riuniva per capannelli. Pochi erano coloro che parlavano o commentavano. Tutti pestavano il ghiaccio che col trascorrere delle ore andava sciogliendosi. Una sola persona girava i vari gruppi, chiedeva come stessero e assicurava che il peggio era ormai passato. Era il giovanissimo Sindaco Francesco Di Martino, che si trovava in paese presso la casa della madre, appunto nello Spiazzo Greco. 
Nello Spiazzo arrivavano grida e lamenti che via via si facevano più forti dalla zona Rahjo. Di Martino -da solo- si diresse in quella zona: sotto il crollo di un muro di Via Croja era rimasto il giovane Agostino Merendino.
I soccorsi in quella notte non arrivarono nè a Contessa nè negli altri comuni del Belice. Era questo l'angolo più trascurato, a perdere, dell'isola. 
Trascorse qualche giorno prima che le autorità si rendessero conto che nella Valle erano morti più di 300 persone ed altre 1000 erano rimaste ferite.

Per quanto riguarda il mio gruppo parentale che da giorni era stato più unito che in altri periodi a cagione dell'evento funebre che aveva interessato mio nonno, fu mio zio Luca Colletti a decidere di abbandonare il paese e raggiungere l'azienda di campagna da lui condotta, a Pizzillo, dove siamo stati per circa una settimana, non dentro le abitazioni che non ispiravano -ormai- alcuna fiducia, ma sotto una grande tenda improvvisata alla meglio. 

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