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martedì 19 dicembre 2017

La crisi della Sinistra Italiana. Così uno degli uomini illustri (Sabino Cassese) legge il volersi affidare a qualcuno, purchè sia qualcuno

Sabino Cassese 
giurista e accademico nonchè 
giudice emerito della Corte costituzionale

La sinistra- sinistra ha buttato alle ortiche tutta la sua tradizione: non ha scelto un operaio, o un dirigente sindacale, o una persona sperimentata in battaglie civili, o uno dei suoi molti dirigenti politici, ma una persona in vista, in ragione della sua carica. 
La sinistra- sinistra sarebbe quella che sostiene la giustizia sociale, quella grande. Ha optato per la giustizia dei tribunali (o, meglio, delle procure), quella piccola. In questo prendere a prestito, in questo ricorrere all’esterno, noto una perdita di identità, una dichiarazione di impotenza, o – se vuole – di incapacità.

Ma non è la prima volta che le forze politiche si rivolgono all’esterno, non riuscendo a trovare al proprio interno personale adatto.
Giusto. Ma ci sono molte differenze. Il Pci aveva creato la Sinistra indipendente, ma i parlamentari che vi militavano non erano i leader, erano piuttosto i consiglieri disinteressati, i compagni di strada, spesso gli esperti che aprivano la strada. Berlusconi, quando a sua volta dovette scegliere compagni di strada, optò per Giuliano Urbani, un professore socialista e per Antonio Martino, un professore liberale. Erano scelte significative degli orientamenti politici ai quali dichiarava di ispirarsi Berlusconi, erano in un certo senso simboli. E non erano certamente i leader, quanto piuttosto i “consiglieri del principe”.

Questo è chiaro. Passiamo al secondo aspetto: chi l’ha scelto?
Qui entriamo in un campo meno noto. Sappiamo che la scelta è frutto di una tipica decisione oligarchica, di una decisione dall’alto. Per quel che sappiamo, tre persone, Speranza, Fratoianni e Civati, si sono recati dal presidente del Senato per offrirgli questa leadership. Per quel che sappiamo – ed è già significativo che le debba dire questo con tante cautele – alla “convention” dell’Atlantico c’erano 1.500 delegati (ma non sappiamo delegati di chi e da chi; sappiamo che erano stati eletti da qualcuno “lo scorso fine settimana”). Non risulta che vi fossero competitori. Insomma, il nuovo leader è stato eletto, scelto, nominato? Non sappiamo perché lui e non altri, ad esempio un generale distintosi in battaglia. Non sappiamo a nome di chi parlerà. Non sappiamo come potrà arricchire il dibattito pubblico, quali nuove esperienze potrà portarvi, che parlino al cuore e alla mente delle “masse di sinistra”, spieghino quali idee abbia per la necessaria rinascita della scuola, per il futuro dei giovani costretti a emigrare, per la riduzione del fardello costituito dal debito, insomma, per tutti i temi di cui la sinistra si riempie la bocca, restando incapace di fare proposte.

Insomma, lei è molto critico, non tanto della persona scelta quanto di chi l’ha prescelto.
Passeremo tra un momento alla persona. Per ora mi lasci concludere che trovo criteri e procedura criticabili sia per quel che rappresentano, sia per quel che rivelano e che l’improvvisazione del leader ricorda Napoleone che si incoronò re d’Italia nel 1805 imponendosi da solo la corona sul capo. Chi gli ha procurato la corona non era uscito dal Pd (o si era rifiutato di entrarvi) perché non amava l’“uomo solo al comando”? Perché ora mette un “uomo solo al comando”, invece di scegliere una direzione collegiale, per di più “personalizzando” il partito con il nome del leader nel simbolo?

Ma lei dimentica i meriti del prescelto.
Non li dimentico. Anzi, voglio passarli in rassegna, per chiedermi quali meriti vi siano, oltre alla “visibilità” procuratagli di recente dall’essere titolare di quella che si chiama seconda più alta carica dello Stato. Voglio cercare di spiegare che uno può avere grandissimi meriti (essere ad esempio un premio Nobel della chimica), ma non quelli che sono adatti a guidare un movimento politico, e per di più non di notabili, ma di “masse popolari”.

Capisco: lei è alla ricerca dei “titoli” del prescelto, delle prove che ha dato nella sua vita per dimostrare di poter essere un capo di partito di sinistra.
Esatto. Dal curriculum che si può leggere nel sito del Senato risulta che nei più di 40 anni di magistratura è stato giudice per circa 7 anni. La restante parte della sua vita è stata trascorsa nelle procure e nel ministero della Giustizia. Il nuovo leader ha dichiarato, più o meno testualmente, “posso guidare una formazione politica. Se ne accorgeranno tutti”, assumendo che chi ha governato procure può anche assicurare il buon governo del partito e del paese (si è proposto infatti la ricostruzione della sinistra e quindi del paese). Come procuratore, in sede locale e poi nella procura nazionale, si è interessato della repressione dei reati, ha guidato la polizia giudiziaria, ha disposto misure cautelari, ha coordinato investigazioni, ha acquisito informazioni e dati attinenti alla criminalità organizzata. Tutto questo in funzione della “lotta alla mafia” e alla criminalità organizzata.

Mi sembra di sentire nelle sue parole l’eco di quanto scrisse Sciascia nel gennaio 1987, per cui nulla vale più, in Sicilia, per fare carriera nella magistratura del prendere parte a processi di mafia. 
Si sbaglia, come forse sbagliava Sciascia nel parlare dei “professionisti dell’antimafia”. Voglio riflettere su qualcosa di diverso. Su che cosa può simboleggiare per la sinistra e per il paese identificare in un “accusatore-investigatore” la guida politica.

Ma il presidente del Senato ha esposto le linee per la costruzione di “una nuova casa per un’Italia di liberi e uguali”.
Ma proprio qui si rivelano le debolezze maggiori della candidatura. Liberi e uguali: ma chi è contro la libertà e l’uguaglianza, oggi, in Italia? E dove è il programma? Nel discorso “di investitura”, il candidato ha solennemente dichiarato “avremo un programma scritto e ideato attraverso un percorso partecipato”. E’ forse la prima volta nella storia che un movimento politico si presenta senza una “offerta politica”, senza quella che i britannici chiamano “platform”. Insomma, il vuoto della politica, il vuoto programmatico.

Lei tralascia il fatto che il candidato da cinque anni è in Parlamento, avendo lasciato i ruoli della magistratura.
Apprezzo molto che abbia abbandonato i ranghi di quello che dovrebbe essere un potere indipendente, a differenza di molti altri. Apprezzo meno che abbia anche lui “cambiato casacca”, abbandonando il partito nelle cui file si era candidato ed era stato eletto e iscrivendosi a un altro gruppo parlamentare. Apprezzo meno che non si sia dimesso dalla carica prima di candidarsi leader o di accettare la leadership che gli veniva offerta. Nelle assemblee parlamentari c’è una tradizione che risale all’800 per la quale i presidenti non votano. Saragat, Fanfani, Merzagora, in circostanze comparabili, si dimisero. Apprezzo meno il cattivo esempio che la scalata alla politica dà a tanti giovani magistrati, tentati da quella che ho definito in passato politicizzazione endogena dell’ordine giudiziario.

Non è troppo critico del nuovo leader, non dimentica che altri fanno lo stesso?
Vero: anche Berlusconi cerca “volti nuovi”. Ma lui è come Crono, che secondo la teogonia esiodea divorava i propri figli temendo che lo privassero del potere. E non le pare che le forze politiche, quel che resta del mondo politico in Italia, dovrebbero preoccuparsi di questa “ricerca dell’altro”, che non si sa mai se sia un modo di presentare meglio la vetrina, oppure una maniera di cambiare la merce del negozio. Povero il paese che ha bisogno di eroi, povero il paese che deve ricorrere ai procuratori, povera la sinistra che incorona un proprio leader senza neppure sapere se è di sinistra.

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