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mercoledì 7 dicembre 2016

Dissero ... ...

La lezione di Piero Calamandrei
 Testo originariamente pubblicato in «Critica sociale», XLVIII, 5 ottobre 1956.
professionismo parlamentare 
Quando si parla in senso dispregiativo del «parlamentarismo» come degenerazione del sistema parlamentare, non si vuole intendere, è chiaro, che si possano corrompere in sé le leggi che stabiliscono in astratto il modo con cui i congegni parlamentari dovrebbero funzionare; ma si intende dire che gli uomini incaricati di metterle in pratica, gli elettori e gli eletti, i deputati e i governanti, le possono far servire a finalità in contrasto con quelle per le quali queste leggi sono state in astratto dettate: a finalità di gruppo, in contrasto coll’interesse pubblico (per esempio gli interessi di un gruppo finanziario), o addirittura a finalità private: vi mettono dentro i loro propri moventi psicologici di carattere personale, ed è proprio per questo che a poco a poco tutto il sistema si trova a essere deformato e corrotto.
Gli studiosi di problemi giudiziari sanno che per comprendere come funzionano le leggi di procedura bisogna conoscere da vicino la psicologia dei giudici e degli avvocati: solo così ci si accorge che in realtà i pregi o i difetti delle leggi non sono che le virtù o i vizi di coloro che le fanno vivere nella realtà dei processi. 
Uno studio analogo si potrebbe fare per i congegni parlamentari: la crisi del parlamentarismo, più che materia di costituzionalisti, è materia di psicologi: speranze, ambizioni, simpatie, amicizie, connivenze, invidie, livori, timidezze, insofferenze, cupidigie, tutte le sfumature dei sentimenti umani, buoni e meno buoni, costituiscono il sottofondo della politica, e solo andando a esplorare i moventi individuali nascosti in questo sottofondo, si può avere la spiegazione di certi fenomeni di degenerazione parlamentare che altrimenti, sul piano politico, rimarrebbero inesplicabili. [...]
Uno degli aspetti psicologici più inquietanti della crisi del parlamentarismo è costituito, secondo me, da quel fenomeno che si potrebbe chiamare il «professionismo politico». Le cariche parlamentari hanno una diversa dignità e un diverso rendimento pratico, secondoché siano concepite come un ufficio disinteressato, un munus publicum che si assume per dovere civico, ovvero come una professione che dà da vivere a coloro che ne sono investiti. 
Un tempo, quando le Camere si adunavano di rado e i loro compiti erano relativamente limitati, il mandato parlamentare non aveva carattere professionale: i deputati, quando il Parlamento era convocato, interrompevano per qualche settimana la loro professione; ma appena chiusi i lavori, tornavano a casa loro a vivere di essa (o magari, a casa loro, a vivere di rendita). Le cariche parlamentari erano un sovrappiù marginale aggiunto all’attività professionale; appagavano ambizioni, aumentavano magari il prestigio e talvolta il reddito professionale di chi ne era investito (specialmente degli avvocati), ma non erano esse stesse un impiego e un mestiere: l’indennità parlamentare non era stata ancora inventata. Il politicante professionale era considerato, nella pubblica opinione, come un affarista spregevole.

Ma questo sistema aveva indubbiamente i suoi gravi inconvenienti: veniva a fare del mandato parlamentare un privilegio riservato a chi viveva di rendita o ai professionisti; era un lusso, non consentito ai rappresentanti delle classi operaie e contadine, che non potevano interrompere periodicamente il loro lavoro dei campi e delle fabbriche e mantenersi a Roma, nei periodi di attività legislativa a spese loro o del partito. [...]
L’indennità parlamentare fu una grande conquista democratica, resa necessaria dal costante allargarsi della attività legislativa e dall’ascesa politica delle classi lavoratrici. Il Parlamento, invece di stare aperto per brevi periodi di qualche settimana, ha dovuto gradualmente prolungare i periodi del suo lavoro, fin quasi a sedere in permanenza, in modo che l’attività dei deputati ha dovuto, in misura sempre crescente, rimanere assorbita dalle esigenze della carica; e nello stesso tempo restringersi sempre più, fino ad annullarsi, il margine lasciato alla attività professionale privata. In questo modo i deputati che avevano una professione hanno dovuto in maniera sempre più perentoria decidersi a scegliere tra il mandato parlamentare e l’esercizio professionale: chi ha cercato di mantenere il piede su due staffe ha dovuto per qualche anno sottoporsi a logoranti acrobazie, come quel chirurgo senatore di mia conoscenza, direttore di un ospedale di provincia, che per molti anni ha continuato a dividersi tra la sala operatoria e il Senato, facendo il legislatore a Roma dal martedì al venerdì, e tornando al suo ospedale di provincia dal sabato al lunedì, per operare d’urgenza in fine di settimana le ernie e le appendiciti che attendevano disciplinatamente la sua apparizione festiva.
In questo modo deputati e senatori sono diventati a poco a poco, anche senza volerlo, professionisti della politica: la politica, da munus publicum, è diventata una professione privata, un impiego. Non vi è ancora un contratto di lavoro, ma già sono in atto, o in discussione, misure di previdenza contro la vecchiaia e contro la disoccupazione. Ora questo graduale cambiamento di condizione professionale e psicologica dei parlamentari, che pur si deve considerare come non revocabile, ha segnato una svolta di tutto il sistema: lo ha snaturato e rischia di distruggerlo. Se non si troverà il modo (e non mi par prevedibile che si trovi) di riportare il Parlamento alle sue origini, bisognerà con coraggiosa coerenza, stabilire, come per gli impiegati, la incompatibilità tra il mandato parlamentare e l’esercizio di qualsiasi altra professione.
Il deputato e il senatore sta diventando sempre più, in tutti i paesi dov’è in esercizio il sistema parlamentare, un funzionario stipendiato. 
Bisognerà arrivare a inibirgli il cumulo coll’esercizio di ogni altra attività retribuita, professionale o impiegatizia, come si vieta oggi agli impiegati dello Stato, la cui attività dev’essere interamente dedicata alla loro funzione, dalla quale essi legittimamente ritraggono quanto basta per vivere.
Ma in questo modo è chiaro che la psicologia del parlamentare si «burocratizza»: essere eletti deputati vuol dire trovare un impiego: l’attivismo politico diventa una «carriera». Non esser rieletti vuol dire perdere il pane: le campagne elettorali diventano, per molti candidati, lotte contro la (propria) disoccupazione.

A questo «burocratizzarsi» della politica concorre d’altra parte anche la struttura sempre più stabile dei partiti: i quali non possono più affidarsi come un tempo all’apostolato volontario di pochi entusiasti, disposti a rubare qualche ora al sonno per mandare avanti alla meglio, gratuitamente, la sezione o il settimanale di partito; ma hanno bisogno di crearsi tutto un «apparato» di funzionari retribuiti, i quali diventano una burocrazia che assume a poco a poco tutti i caratteri della burocrazia dello Stato. Oggi i segretari di partito, centrali e locali, hanno uno stipendio e vivono di quello, trascurando ogni altra attività che non sia quella della loro funzione organizzativa: i «sindacalisti», gli «attivisti» sono nient’altro che funzionari di partito; anche i giornalisti di partito diventano, senza volerlo, «funzionari», soggetti alla subordinazione gerarchica, aspiranti, come gli impiegati dello Stato, ai trasferimenti e alle promozioni.

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