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martedì 7 ottobre 2014

Sapori di Sicilia (2)

Essendo l'ispirazione di questa rubrica originata da discendenti di Contessioti che oggi vivono nel Nuovo Continente (Canadà), riteniamo che il taglio debba essere -almeno nella fase iniziale- a sfondo storico.

Ben sapendo, quindi, che da sempre, già in periodo greco-romano, le colline interne della nostra isola possiedono quell'aspetto che ancora oggi ci è familiare: vaste superfici spoglie di alberi, verdi d'inverno e gialle dopo la raccolta del grano per la grande siccità estiva e ben sapendo che il sistema agricolo che gli arbëresh hanno applicato qui in Sicilia ininterrottamente fino ai primi decenni del XX secolo è quello detto a tre campi; il terreno veniva diviso e lavorato per una parte a maggese, una lasciata a pascolo e un'altra parte ancora seminato a grano, poi lievemente corretto con la sostituzione del maggese con la coltura delle fave, e ben sapendo ancora che questo sistema conosceva come piante alberate solamente isole di viti e di ulivo, già possiamo farci l'idea di come e quale fosse -per secoli- l'alimentazione delle zone interne dell'isola, quando ogni realtà abitata costituiva un mondo isolato e sconosciuto fin'anche alle comunità che distavano pochi chilometri da essa.

Col XX secolo anche l'interno dell'isola, i paesi rurali, si sono aperti al mondo. Oggi l'alimentazione dell'intero Paese Italia è più o meno uniforme. 
Non era così fino all'inizio del Novecento. Quando l'alimentazione del cuore della Sicilia (dove stava inserita Contessa) differiva, e notevolmente, da quella delle realtà costiere come poteva essere Sciacca da un lato e Palermo dall'altro.

Riteniamo opportuno ricordare, in questa sede, come fino agli anni cinquanta del secolo scorso tutta la campagna nuda e priva di alberi (paesaggio tipico del latifondo) lasciava spazio al paesaggio prossimo al centro abitato (la cintura) dove risaltavano:
-la rete fitta di stradelle, 
-la fitta vegetazione alberata, 
-il chiuso dei muri di pietra a secco che cingevano piccoli appezzamenti e proteggevano dal furto e dal bestiame gli alberi da frutto (fichi, arance più o meno amare, fichi d'india, celso, cotogno, castagna, caruba, granato, mandolro, noce, nespolo, ciliegio, sorbo). Quella frutta finiva sulle tavole dei contessioti, non di tutti però, ma di coloro che disponevano di quell'appezzamento prossimo al centro abitato che prendeva il nome di "locu". 
Esistevano, nei "lochi" alberi pure di albicocche, pere, susine, amarena e tanti altri. Rispetto al mondo esterno latifondista i "lochi" erano angoli di Paradiso in terra.
Il fico d'india arrivò nell'isola nel seicento dal nuovo mondo. Qui da noi -a Contessa, ma pure nel resto dell'isola, questo frutto ha ottenuto grande successo con la "scozzolatura", quella tecnica che consentiva, eliminando con un bastone la naturale fioritura della tarda primavera, l'ottenimento di frutti a maturazione autunnale di migliore qualità rispetto a quelli estivi.
Questi alberi da frutto da noi elencati, del tutto assenti nel vasto latifondo contessioto, come abbiamo riportato stavano nella "cintura", la fascia a verde che circondava il centro abitato e che era esente dalla pesantezza dei contratti latifondistici in quanto lascito delle antiche concessioni enfiteutiche che erano state limitate da Alfonso Cardona (1520) ai feudi di Serradamo e di Contesse.
Gran parte della "cintura" contessiota era denominata "Musgat", "Giarrusi", "Fuisa". In pratica era tutta l'area che dopo il 1968 costituì l'area utile al trasferimento parziale dell'abitato.
Un'area che i contessioti poterono utilizzare alle medesime condizioni della "cintura" e che consentì loro di poter coltivare frutti alberati, vigne e uliveti fu quella di Bagnitelle, dal Settecento in poi, quando il ceto civile e quello borgese locale ottenne per sè la concessione in enfiteusi di questo ulteriore feudo.

Abbiamo ritenuto utile inserire questo flash storico all'interno della rubrica suill'alimentazione ed sapori del cibo isolano, perchè così come ogni essere umano è ciò che mangia, anche una comunità è ciò che mangia e ciò che riesce ad ottenere dalla fonte del lavoro. Non per nulla l'attività gastronomica esprime la cultura di un popolo.
Per secoli i nostri antenati furono solo ciò che proveniva dalla cerealicultura dei feudi-latifondi del territorio e dal "lusso" (per pochi) che proveniva dalla "cintura" o dalle piantagioni settecentesche postate a Bagnitelle.
Chi ci ha insegnato che l'uomo è ciò che mangia, ha poi aggiunto che l'uomo è anche "ciò che ascolta". Ma questo è un altro discorso. 

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