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giovedì 10 aprile 2014

La lingua albanese

di Paolo Borgia
Il contesto dell’Arbrescio del Belìce e dintorni
Il linguaggio è un prodotto umano, è parte della vita degli uomini e, per questo, frutto delle loro decisioni ma in modo collettivo, riflesso sociale peculiare, immagine del proprio mondo reale e mitologico  -Costantino, Morea, Skanderbeg. Non c’è un potere indipendente da noi che dà significato alla parola. La tradizione, oggi si stempera rapidamente e con essa la lingua muta o scompare. Riflettere sulla nostra lingua che interagisce col ricordo delle condizioni esistenziali di appena ieri della nostra popolazione ha la pretesa di rendere omaggio a quel Bene Culturale immateriale chè l’Arbrescio

Le relazioni.  I nostri padri ci tenevano che si mettesse il loro nome ai propri nipoti. Una forma certamente di orgoglio personale ma anche una sicura forma di economia comunitaria. Infatti se un ragazzo era interpellato da un adulto, la prima domanda che gli veniva posta era: «Di chi sei figlio? – Kujt je bir?». E la risposta, « Sono il figlio di Felice di Filodoro – Jam i biri i la’ Gazmënit të Fillarit», consentiva all’adulto di accostare mentalmente la persona giovane ad un suo coetaneo sicuramente conosciuto - si conoscevano tutti in paese.

Come al Signore e a Maria, anche agli uomini e alle donne si usava dare del ‘tu’. Alle persone più anziane – anche di poco – ci si rivolgeva aggiungendo forme di cortesia. Così, a «Scusi Signore, Signora» corrispondeva «Ti Burrë, ti Grua! Zoteria Jote (o) Zotrote (o ancora) Strote».
E’ evidente che la apparente impertinenza relazionale è  poi in realtà vincolata ad una gerarchia sociale legata alla età, oltreché alla ricchezza, alla appartenenza di ceto in ordine decrescente: degli agricoltori, degli artigiani, dei lavoratori giornalieri. Dunque chi era più giovane doveva interpellare i più anziani che si conoscevano, facendo precedere al nome il titolo di ‘lala’ se uomini e quello di ‘vova’, se donne e questo obbligo comprendeva anche i fratelli e le sorelle maggiori. Per esempio: La’Ndoni, Vo’Mariqja.

Facevano eccezione gli artigiani. Il loro titolo è ‘Mas’ (forse da ‘mas-misuro’ o dal siciliano ‘Mastru’, per esempio: Mas Paluci, Mas Mara, anche se parlando con loro (e di loro) si chiamavano ‘Mjeshtër’ o anche ‘Zoti Mjeshtër’. Senza far differenza per i maestri di scuola. Oggi, per questi, è entrato nell’uso ‘Mësuesi, Mësuesja’ (a la shqipa), parole che vengono da ‘mëson – insegna’. _________
Le case. La maggior parte delle case erano eufemisticamente ‘au rez-de-chaussèe’. Erano in realtà il più delle volte dei ‘loft – katonj’, dei bassi con una sola luce, monolocali in cui animali – galline, capra, mulo – ed esseri umani condividevano la loro grama vita. Mercè questa angusta esiguità delle abitazioni la strada si trasformava in una sorta di salotto comunitario, in cui di giorno ci si riversava: la ‘gjitonia’, un promiscuo vicinato. Accanto all’uscio – përkrahu pragut –, chiuso dal portone notturno e dalla mezzaporta con gattaiola, c’era  spesso una grossa panchina di pietra: dhoqéja. Serviva per salire sul mulo, ci si sedevano le donne all’alba per spettegolare mentre si pettinavano – krëheshin –  magari col pettine fitto e facevano le trecce – këshetë –. Vi si lucidavano le pentole – kusìtë di rame, si ricevevano visite brevi, ecc. _________

La famiglia.
Nonni          Gjish-i (tatëmadh-i, tot-i, nan-i, non-i)        Gjish-e -ja (non/ë -a)
Gentori  At/ë -i (tat-a) [patrigno = i njerk-u]     < prind-i >     Ëm/ë -a  (mëm/ë -a, mo) [e njerk/ë -a]
Figli                  Bir -i                                                        Bi/jë -ja
Fratelli              Vëllà -u/-i  [adottivo=i gjetur]                Mot/ër -ra
Signor                Lal/ë -a                                                   Vov/ë -a
Coniugi            i Shoq -i                                                 e Shoq/e -ja

Zii di sangue    i Un/gël -gli                                           e Emt/ë -a  
Zii legali            Lalëbukur -i                                            Nus/e -ja
Zii (domestico)  Vov -i    (vëllà i tatës, i mëm                 Motërmëm/ë -a  Motërtat/ë -a
Nipoti         i Nip -i                                                         e Mbes/ë -a
Suoceri       i vjeh/ërr -rri                                               e Vjeh/ërr -a     
Genero e nuora  i dhënd/ërr -rri                                    e Re -ja 
Fidanzati              dhënd/ërr -rri                                       Nus/e -ja
ecc._________
Possiamo notare come il grado di parentela ha una gamma di termini molto estesa: una prima serie, direi quasi legale ed una seconda più familiare. Con i parenti acquisiti c’è quasi un rispettoso distacco. E’ da notare come da tempo immemore i coniugi qui  si sono chiamati ‘il compagno e la compagna’, segno di una parità tra di loro che solo oggi in molte altre zone europee si è raggiunta.
Da tutti gli studiosi è notata la parola ‘motër’ che non vuol dire ‘madre’ come nelle altre lingue bensi ‘sorella’, tuttavia  il termine ‘mo’ depone per un probabile precedente significato di motër. Però, per quello che è il nostro discorso, la parola più interessante è  “At o Atë”. Questa come molte parole fanno il plurale addolcendo la vocale “a”  divenendo “etra”. Ma oltre a ciò, anche nel singolare addolcisce la vocale come per esempio: la casa di tuo padre - shpìa e t’yt eti, l’ho data a tuo padre - ia dhash t’yt eti. Questa come molte altre singolarità rendono problematiche le origini dell’Arbrescio. A me sembra che ci troviamo davanti a due o più lingue che si sono incastrate nel tempo una nell’altra dopo aver passato la verifica della orecchiabilità. Una lingua, forse semplice, ma non facile.

3 commenti:

  1. Salve
    Le relazioni


    Penso che il fatto che i padri tenessero, al che, i loro nomi venissero messi ai nipoti non sia un fatto di orgoglio,ma l'evidenziarne il DNA. Ovvero un principio di onore.
    Molti valori oggi vanno perduti,ad esempio il sentimento di metterne il nome anche soltanto per rendere culto ad un genitore morto,oppure perché si ha un legame profondo con il genitore.
    Sicuramente molti nomi sono brutti,ma a volte prenderne le lettere e farle ruotare può trasformare quel nome in un nome non comune,in un nome apparentemente moderno senza nulla togliere alle proprie idee e valori.
    ,Questo,però, penso che sia quello che non si capisce e di conseguenza si pensa che non esista più" usare il nome dei nonni"
    Come dice il Papa nella messa a S.Marta :anche oggi c'è dittatura del pensiero unico.
    Penso sia una voglia di modernità senza senso,mentre rinnovarsi e rimanere nelle proprie tradizioni è un continuo lavoro di fantasia.

    Nell'uso di Strote ad esempio,so che non è più usato perché appunto rivolto a persone anziane.
    Ma se dovessi rivolgermi ad una persona con eleganza e di conseguenza con il LEI
    Come dovrei dire?
    Ecco che per evitare che gli stessi arberesh si offendano si usa l'italiano.
    Saluti

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    Risposte
    1. Se diamo del tu a Dio Ati yn çè "je" nè qiell oppure a Maria "ti çè ruajte gjishtrat tané, possimo dare del tu a tutti. Poi ognuno fa come vuole

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