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mercoledì 26 ottobre 2011

Gli arbëreshe di Calabria nella descrizione di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

ripreso dal Corriere della Sera,
 di qualche mese fà

Il Risorgimento «silenzioso» dei nuovi albanesi

La comunità calabrese degli «arbëreshe» vuole spezzare l’isolamento. San Demetrio Corone

La comunità calabrese degli «arbëreshe» vuole spezzare l’isolamento. E si prepara a celebrare i suoi eroici patrioti
Cosa c’entrano la ginnastica funky, il progetto «costruire la Mucca Felice», l'iniziativa «Storia pio pio» o il frisbee con i corsi di arbëreshe? Un fico secco. Eppure sono finiti tutti nel mucchio di una strampalata denuncia di un quotidiano sotto il titolo «Le spese pazze della scuola». L’incipit era: «Se Alvaro Vitali avesse interpretato Pierino al giorno d'oggi, non avrebbe dovuto palpeggiare le maestre per divertirsi a scuola». E giù un elenco dei soldi «buttati» nelle iniziative più assurde e ridicole.
L'inserimento dell’arbëreshe tra le cose grottesche e superflue, in anni di esaltazione dei dialetti, la dice lunga sui nuvoloni che incombono sugli albanesi d'Italia. E non solo sulla loro lingua, che sopravvive da più di mezzo millennio in 41 comuni e 9 frazioni disseminati in sette regioni centro-meridionale grazie alla cocciutaggine (virtuosa) di oltre centomila abitanti. Ma sulla loro cultura. La loro identità. La loro stessa esistenza.
Certo, hanno la pelle dura. Hanno resistito nella loro patria antica ai turchi. Resistito alle ripetute offensive della Chiesa contro i loro riti greco-ortodossi. Resistito a secoli di tentativi di assimilazione. E somigliano al grande Pino Loricato, il simbolo del parco del Pollino, ai piedi del quale sono adagiati buona parte dei paesi arbëreshe. Albero che, a dispetto di chi lo dava avviato all'estinzione, resiste impavido e viene considerato il più vecchio pino d'Europa.
Resistono, gli albanesi d'Italia. Nonostante, come spiega l'etnologo Vito Teti, «la legge in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche del 15 dicembre 1999 sia arrivata, dopo lunghe attese e tanti rinvii, forse, troppo tardi». Nonostante la tivù abbia inferto colpi mortali alla tenuta dell'arbëreshe. Nonostante la scuola, al di là di una recente legge regionale che qualche aiuto agli istituti che fanno corsi di albanese lo dà, non abbia fatto nulla per salvare questo pezzo importante della cultura meridionale. Nonostante l'emigrazione, che continua a svuotare i borghi dispersi in particolare a cavallo dell'Appennino calabro.
 Spiega lo scrittore Carmine Abate, autore di vari libri che ruotano intorno al mondo arbëreshe, come «La moto di Scanderbeg» (sulle rivolte contadine del dopoguerra che videro una larga partecipazione di albanesi, spesso comunisti devoti all'albanese Antonio Gramsci) o l’ultimo «Vivere per addizione a altri viaggi», che «non è che sta scomparendo la lingua. Stanno sparendo le persone. Il mio paese, Carfizzi, negli anni Sessanta aveva 1800 abitanti. Oggi non arriva a 800».
Un peccato. Perché la comunità degli italiani di lingua albanese, in contro tendenza con quei meridionali che rileggono oggi la storia rovesciando rabbiosi i miti dell'Unità, vive l'arrivo delle ricorrenze risorgimentali con fierezza. Gli arbëreshe hanno avuto nelle vicende dell'unificazione un ruolo centrale. E un peso nettamente superiore, in proporzione, a quello demografico.
Arbëreshe era Agesilao Milano, che arruolatosi nell'esercito borbonico per potersi avvicinare alla re di Napoli, cercò di uccidere nel 1856 Ferdinando II. Condannato a morte dopo un processo sommario e irregolare, scrive Domenico Cassiano nel libro «Risorgimento in Calabria», il ragazzo «pregava ad alta voce, baciava il crocifisso e ripeteva in continuazione: "viva Dio, la religione, la libertà, la patria"» Raccontò un testimone, ripreso da Cassiano, che Agesilao «salì animoso il patibolo e si compì la giustizia umana, ma in modo così barbaro crudele che il popolo mandò un grido d'indignazione e quasi minacciava di sollevarsi al punto che i gendarmi impugnarono le pistole e gli svizzeri già apparecchiavano a caricare il fucile. Durò un quarto d'ora l'agonia del condannato e dopo anche il suo corpo venne indecentemente maltrattato dal carnefice».
Arbëreshe era Girolamo De Rada che nonostante il nome italiano e la dedizione con cui si battè per l'Unità d'Italia, è il più grande dei poeti albanesi. Arbëreshe erano molti ragazzi che persero la vita nelle sommosse calabresi in nome del tricolore, ad esempio Raffaele Camodeca, giustiziato come i fratelli Bandiera nel vallone di Rovito e ricordato da Serafino Groppa come «un giovine eroe il quale a 24 anni, quando più gli sorrideva la vita, cadde vittima del piombo esecrando» e gridando: «E' questo il più felice momento della mia vita! Viva l' Italia!».
Arbëreshe erano i 500 abitanti di Lungro (tolti i vecchi, le donne e bambini, un maschio ogni tre) che si unirono alla marcia garibaldina su Napoli dopo avere inviato al condottiero un messaggio che traboccava di entusiasmo: «Essere straordinario, le nostre lingue non hanno parole come definirti; i nostri cuori non hanno espressioni come attestarti la nostra ammirazione. Un popolo intero ti acclama: Liberatore della più bella parte d'Italia! (..) L'America può vantare un Washington, la Svizzera un Guglielmo Tell ma l'Italia, più superba ancora...».
Arbëreshe era Pier Domenico Damis che, come raccontò anni fa un suo pronipote, Giuseppe Martino, nel libro «Il tenente generale», dopo essersi gettato nei fermenti irredentisti del 1844, del 1847 e infine del 1848 venne costretto a una latitanza di tre anni sulle montagne, fu preso prigioniero, condannato e spedito dai Borboni su una nave diretta in Sud America. Una deportazione che sventò con gli altri 66 patrioti dirottando il bastimento verso l'Inghilterra, in tempo per raggiungere Quarto e partecipare alla spedizione dei Mille da Marsala al Volturno.
Arbëreshe, come spiega Sergio Romano, era Francesco Crispi. Arbëreshe erano infine i ragazzi del collegio albanese di Sant’Adriano a San Demetrio Corone, una trentina su centocinquanta, che al passaggio di Garibaldi si unirono alle camice rosse. Una scelta temeraria, per dei liceali. Che con quel gesto davano ragione ai contadini filo-borbonici che nel 1799 avevano dato l'assalto a quella culla cosentina della intellighentzia albanese convinti che «a Sant'Adriano pure Cristo è giacobino!» Tesi che, davanti all'elenco di tutti gli irredentisti usciti dal collegio, nato come seminario greco ortodosso ma via via laicizzato, spingeva Ferdinando II a bollare l'istituto come «un covo di vipere» e «una fucina del demonio».
Come mai questa dedizione all'Italia? Da dove veniva questo patriottismo spinto al punto che il poeta Zep Serembe esaltò Garibaldi come «il grande prode in camicia rossa / eguaglia il nostro Scanderbeg / perché quando con fierezza / impugna la spada / quale folgore brucia e squarcia»? La risposta non è facile. Forse pesò l’ostilità verso i Borboni. Forse la scelta degli albanesi, ricorda Abate, «di non essere una comunità chiusa in se stessa ma al contrario tradizionalmente aperta». Forse la penetrazione degli ideali liberali e laici, sicuramente maggiore nelle classi dirigenti arbëreshe che non in quelle, spesso grettamente conservatrici, della Calabria papalina e borbonica. Fatto sta che quel paragone tra Garibaldi e Scanderbeg diceva tutto: l'amore per la patria scelta era pari a quello per la patria lasciata.
Perché Giorgio Castriota Scanderbeg, l'eroe della resistenza contro la penetrazione dei turchi nell'antica Arberia, l'uomo che in cambio dei servigi militari dati inviando nel 1461 un corpo di spedizione in aiuto a Ferrante I d'Aragona contro Giovanni d'Angiò ottenne terre nelle Puglie, è per gli arbëreshe molto di più che un simbolo del passato. E’ ancora un personaggio vivo. Che domina i siti Internet, i giornali, le radio albanesi. Il punto di riferimento di questo pezzo di popolo arrivato in Italia in otto successive ondate migratorie dal 1399 al 1774. Più, si capisce, l'ultima. Iniziata quando un sabato d'estate del 1990, esattamente vent'anni fa, il camionista Fatos sfondò col suo Skoda un cancello dell’Ambasciata italiana a Tirana chiedendo asilo. E quando, pochi mesi dopo, davanti alle coste pugliesi si stagliarono i profili della «Lirja», della «Tirana » e della «Legend», quelle vecchie e arrugginite carrette del mare stracariche di migliaia e migliaia di albanesi.
E chi può dimenticare quelle arche stracolme? Non i profughi, che ricorderanno sempre come furono rinchiusi nello stadio di Bari con i viveri lanciati dagli elicotteri. Non gli italiani, che nonostante gli arrivi dai paesi poveri si fossero intensificati da una quindicina di anni, si accorsero in quel momento di non essere più un paese di emigranti ma di essere diventati un paese di immigrazione. Non gli arbëreshe che davanti alle immagini di quell'umanità stravolta e stracciona, subirono uno choc.
«Scendevano miracolosamente da queste imbarcazioni precarie persone che si chiamavano anch’essi albanesi e anch’essi, come gli antichi profughi, fuggivano da un mondo di oppressione, in cerca di libertà e di un mondo migliore, ma anche di cibo e del benessere che vedevano attraverso le immagini televisive», ha scritto ne «Il senso dei luoghi» Vito Teti, «I nuovi arrivati, però, non avevano nulla dei vecchi guerrieri, non issavano aquile al cielo come Scanderbeg, non avevano paesi da fondare. Erano sporchi, laceri,macilenti. Gli albanesi che arrivavano adesso dal mare non avevano più una civiltà da difendere. Fuggivano dai cocci del regime comunista, cercavano l’Occidente, non si sentivano attratti da quelli che si chiamavano arbëreshe e che li guardavano con un certo sgomento, con qualche inquietudine. Per gli albanesi che da secoli attendevano e che da decenni mantenevano scambi con l’Albania era difficile riconoscere la loro diversità negli altri che arrivavano. Erano troppo diversi anche per la loro rivendicata, difesa ed esibita con orgoglio, diversità. L’arrivo sulle coste ebbe un effetto paradosso e di rigetto. Anziché rafforzare il senso dell’origine, gli albanesi di Calabria quasi cominciavano a vergognarsi di quelle maschere erranti che parlavano una lingua simile, molto simile, alla loro. Qualcuno cominciò a pensare che era giunto il momento di integrarsi, di nascondersi, di non farsi confondere con quelli che venivano da fuori».
«Sono amico di Teti, ma su questa “vergogna” non sono d'accordo», dice Carmine Abate, «Una cosa però è vera. Anche se molti paesi albanesi accolsero generosamente i nuovi profughi, quei "cugini" sollevarono anche una certa diffidenza. Insomma, fino a quel momento tutti noi c'eravamo sempre definiti albanesi di Calabria, di Puglia, di Sicilia... Da quel momento abbiamo preferito definirci arbëreshe».
Mica era facile, essere albanesi. Basti rileggere la cronaca nera dell'epoca, segnata da episodi feroci. Rileggere i titoli dedicati al caso di Novi Ligure, dove sulle prime, in base alla testimonianza di Erika, i sospetti erano stati scaricati sulle solite «belve» di Tirana e di Durazzo. Rileggere certi slogan leghisti: «Un voto in più a Formentini, un albanese in meno aMilano ». E non era soltanto la destra a battere. Ve la ricordate la battuta di Daniele Luttazzi? «In questi giorni a Milano la nebbia è così fitta che gli albanesi non riescono neanche ad accoltellarsi ».
Eppure, vent'anni dopo i primi sbarchi, si può dire che l’integrazione degli albanesi è stata più rapida e silenziosa di ogni aspettativa. Certo, non mancano storie inaccettabili e figuri da colpire con pugno duro. Soprattutto sul fronte della tratta di tante ragazzine sbattute sulla strada. Difficile negare, però, che l'immagine dell'albanese è cambiata profondamente. Se gli arbëreshe sono oggi poco più di centomila, gli «albanesi di Albania» sono mezzo milione. Per capirci: un albanese su sei vive qui. Ancora più impressionante è il numero di quelli che non si sono limitati a tirare a campare facendo i manovali o i lavapiatti, ma sono diventati imprenditori. Al 30 giugno 2010, dice Unioncamere, le ditte individuali con un titolare nato al di là del canale d'Otranto erano 27.870. Per la maggior parte (22.701) proprietari di piccole imprese edili, settore nel quale gli albanesi occupano un terzo dello spazio degli extracomunitari. Più 1.248 commercianti e meccanici, 1031 imprenditori «manifatturieri », 582 proprietari di bar e ristoranti e perfino 36 operatori finanziari. Il numero degli imprenditori albanesi è inferiore soltanto a quello dei marocchini (49.186) e dei cinesi (36.103) e rappresenta l’11% circa di tutte le 258.577 ditte individuali operanti in Italia intestate a exracomunitari. Una classe imprenditoriale giovane. Per un quarto (5.914) al di sotto dei trent’anni. Gli anziani, quelli con più di settant’anni, sono appena 28: l’uno per mille.
La Regione dove la loro concentrazione «imprenditoriale » è massima è la Toscana: ce ne sono 5.407. Seguono la Lombardia (5.082) e l’Emilia (4.325). In Puglia, dove s'infranse l’ondata delle carrette del mare e poi dei gommoni, sono solo 483. In Calabria, dove esistono le comunità arbëreshe più radicate, appena 55: un centesimo rispetto a Firenze e alle altre città toscane, come Pistoia, che svetta a 923.
Una manna per Tirana. Che ha potuto contare da vent’anni in qua su un fiume di rimesse. La Banca d’Albania ha calcolato che i soldi inviati a casa dal milione e mezzo di cittadini che lavorano fuori pesano per il 19% sul Pil. Per capirci, è come se in Italia arrivassero ogni anno più di 300 miliardi di euro. Un acquazzone di soldi mai visti. Ma è un flusso destinato a ridursi: gli albanesi sono sempre più radicati in Italia, si sono fatti raggiungere dai familiari, hanno figli nati qui, che studiano qui. Molti stanno perdendo l'uso della lingua al punto che nascono associazioni, come la Scanderberg di Parma, che organizzano corsi di albanese per i figli.
Quando Fatmir Kurti salì sul gommone che lo portò in Italia, nel 1991, aveva 22 anni. Era entrato nella polizia di Scutari sei mesi prima. Passare da tutore della legge a clandestino fu la scelta di un attimo. Andò a casa, indossò gli abiti civili è sparì. Non prima d’aver chiesto a suo padre di riconsegnare la divisa e la pistola d’ordinanza. Sbarcato in Puglia, prese un treno per il Friuli. Il giorno dopo lavorava nei campi. Qualche mese, poi in pizzeria, a Lignano. Nel 1996, grazie a una delle tante sanatorie, uscì dalla clandestinità. Due anni dopo aprì a Udine la sua prima «Pizza al taglio». Adesso ne ha dieci. Moglie, fratelli, cognati: ci lavora tutta la sua famiglia.
Da sei anni ha chiesto la cittadinanza italiana. Sei anni di silenzio: «Non mi hanno detto neanche sì o no».
Via via che l'integrazione dei «cugini» proseguiva, gli arbëreshe sembrano essere tornati a rivendicare l'orgoglio della loro appartenenza. Della loro «specificità». Della loro «diversità ». Che in certe aree del paese è un valore. Come in Calabria, dove, spiegano Antonio Sposato e Aldo Marino, i sindaci di San Demetrio Corone e Vaccarizzo Albanese, dove piazza Garibaldi è sottotitolata «Sheshi Gariballdi » con due «elle», «gli arbëreshe sono sempre rimasti estranei alla 'ndrangheta». In Sicilia, purtroppo, è diverso. Li gli arbëreshe si sono mischiati di più. E, come rivela il caso dello storico padrino di Piana degli Albanesi Francesco Cuccia che nel 1924 sconcertò il Duce in visita dicendogli «perché tanti sbirri? Lei qui è sotto la mia protezione» (cosa che gli guadagnò nel giro di un paio di giorni l'arresto) la comunità è rimasta in parte infettata. Qui, in Calabria e in particolare nell’area arbëreshe tra il Pollino e Cosenza, no. «Per carità, non saremo tutti degli stinchi di santo, ma la 'ndrangheta è sempre stata una cosa lontana da noi», conferma Carmine Abate, «Forse perché dopo essere scappati dalla nostra terra madre invasa dai turchi per non avere padroni, non avremmo potuto accettarne qui».
Ma c'è un'altra «diversità» che inorgoglisce gli arbëreshe. Prendiamo a confronto il comune di Cirò passato al setaccio anni fa dalla Corte dei conti: 78,2 % di evasione dell' Ici, 96,8 sui rifiuti solidi urbani, 97, 4 sull'acqua, 100% sulle fognature. Numeri simili ad altri, nella Calabria dell'illegalità diffusa. Bene. A San Demetrio Corone, oltre al vanto degli splendidi mosaici del monastero di Sant’Adriano e di un servizio su National Geographic come «il comune con più ulivi d'Italia», sventolano numeri «scandinavi». E così a Vaccarizzo Albanese, dove il comune raccoglie le tasse comunali senza manco l'appoggio di un'esattoria. A proposito, il paese svetta anche nella raccolta differenziata: 66%. «Con la tariffa più bassa d'Italia: 95 centesimi al metro cubo», ammicca il sindaco.
Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

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