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domenica 14 agosto 2011

Sergio Rizzo/Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera e le difese della "casta" - Il problema non è specialità o meno dello Statuto regionale: arriveranno meno soldi da Roma e tutti dovremo adeguarci

Sugli enti locali solo un primo passo

Le poltrone e i tagli - Le scelte non fatte dalla classe politica

Dice il presidente pidiellino della provincia di Isernia, Luigi Mazzuto, che è tutta colpa del «solleone di Ferragosto che dà alla testa e gioca brutti scherzi». Figurarsi se il «suo» Berlusconi, solo perché le Borse hanno avuto un crollo apocalittico, va a tagliare davvero la sua Provincia! E intorno a lui, dal profondo Nord al profondo Sud, cova la rivolta.
Al punto che perfino l'aspetto più «spettacolare» della nuova manovra viene messo a rischio. Chiariamo subito: il proposito di tagliare le Province è un segnale importante.
Tanto più che solo un mese fa Pdl e Lega avevano sepolto sotto una valanga di no la proposta dipietrista di togliere gli enti dalla Costituzione, primo passo per la loro abolizione. La rottura della diga leghista, che aveva fino ad oggi impedito ogni taglio è una svolta poche settimane fa impensabile. Evviva.
Sarebbe ingiusto se chi chiede alla politica di tagliare in modo significativo non lo riconoscesse: è un passo avanti. Come quello del Pd che propone oggi, in alternativa al piano tremontiano, non solo lo «snellimento di Regioni, Province, Comuni», ma addirittura il «dimezzamento o più delle Province». Puzza di ipocrisia, dopo l'astensione di un mese fa che rafforzò il «no» della destra e più ancora dopo le motivazioni («Non si vota una cosa sbagliata e demagogica per mandare un segnale», tuonò Dario Franceschini) che erano state addotte. Ma è un passo avanti.
Detto questo, facciamo un po' di conti. L'annuncio era stato: «Abolite tutte le Province sotto i 300 mila abitanti». Totale: 37. Poi è arrivata la precisazione: tranne quelle più grandi di tremila chilometri quadrati. Ed ecco sfilarsi Oristano e Sondrio e poi Olbia-Tempio Pausania e Matera e Siena e Grosseto e Nuoro e Belluno. E siamo già a 29.
Poi è entrato in campo, contro il governo berlusconiano, il berlusconiano governatore del Friuli-Venezia Giulia Renzo Tondo, ricordando che la competenza su queste faccende, a casa sua, non è di Roma e dunque le Province di Trieste e Gorizia non saranno abolite, ma semmai accorpate. Anzi, già che c'era ha precisato che lui non abolirà neppure i Comuni sotto i 1.000 abitanti: «Manterranno i municipi e i sindaci, ma verranno accorpati i servizi». E da 29 scendiamo a 27.
Mille chilometri più a sud, a quel punto è stata la volta dei siciliani che per bocca sia del leader democratico Antonello Cracolici sia dell'assessore lombardiano Gaetano Armao hanno precisato che l'isola è ancora più autonoma e dunque, semmai, le Province le aboliscono tutte loro, senza diktat romani. Per precisare meglio la cosa è intervenuto anche Gianfranco Micciché, che è sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma scrive sul suo blog: «In questo governo siede tanta gente che non conosce il Paese. Esempio: l'accorpamento delle Province regionali di Enna e Caltanissetta è il risultato "matematico" del criterio adottato dal governo, ma è un risultato aberrante». E così, tolte Enna e Caltanissetta, caliamo a 25.
Potevano a quel punto tacere i sardi? Manco per idea. Ed ecco arrivare da Cagliari un'agenzia, chiaramente ispirata ai vertici regionali, che ricorda come «tutte le Province della Sardegna potrebbero sopravvivere alla soppressione» (e così i comuni sotto i 1.000 abitanti) perché «l'articolo 3 dello statuto speciale, testo di rango costituzionale mentre il decreto delineato dal Consiglio dei ministri avrà valore di legge ordinaria, attribuisce alla Regione potestà legislativa in materia di ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni, seppure "in armonia con la Costituzione"». E anche se il governatore Ugo Cappellacci ribadisce di avere lui pure l'intenzione di tagliare, sfiliamo per ora dalla lista anche quelle di Carbonia-Iglesias, del Medio Campidano, dell'Ogliastra. E da 37 siamo già scesi a 22. Un quinto del totale. A dispetto di quanto annunciato da Roberto Calderoli: «Aboliremo dal 25 al 35%. Ovviamente dopo il censimento previsto a ottobre».
Avanti così rischiamo di entrare nel giochetto caro ad Agatha Christie: «Dieci poveri negretti / Se ne andarono a mangiar / uno fece indigestione, / solo nove ne restar. / Nove poveri negretti / fino a notte alta vegliar / uno cadde addormentato, / otto soli ne restar...».
Tocchiamo ferro, ma alla fine potrebbe spuntarla il coro di quanti si ribellano come il presidente molisano: «Se le Province sono inutili allora perché ne aboliscono solo alcune?». Per salvare quelle che pesano di più dal punto di vista elettorale o contano di più per Bossi che disse «se toccano Bergamo scoppia la guerra civile»? Meglio una scelta netta: via tutte. Magari procedendo con una road map che abbia date e scadenze fisse. Ma tutte, come era già previsto dai padri costituenti. Oppure il processo rischia di incepparsi e rivelarsi una boutade per placare i cittadini infuriati. L'idea di uscirne con un «dose omeopatica» di Province può essere suicida.
In questo momento in cui gli statali scoprono che dovranno aspettare due anni (due anni!) per avere la liquidazione, nulla è più controproducente per la casta politica che dare l'impressione di rifilare alla plebe zuccherini propagandistici. Due esempi? Lo sbandieramento di un taglio di «54 mila poltrone», che avverrebbe attraverso l'accorpamento (giusto) dei Comuni piccoli e piccolissimi. Che senso ha vantarsi di tagli simili? Non prendono un centesimo, nella stragrande maggioranza dei casi, i consiglieri di quei comuni. E spesso sono proprio loro, con gli assessori e i sindaci, i più generosi testimoni della politica sana e disinteressata.
Ancora più peloso è menar vanto, senza toccare mille altre cose, per la decisione che deputati e senatori paghino non il 10%, ma il 20% sui loro guadagni che eccedono i 150 mila euro. Quello che viene accuratamente rimosso è che larga parte della busta paga «vera» di un parlamentare (che poi dia dei soldi al partito ingordo è un'altra faccenda) consiste in diarie e rimborsi che non finiscono nell'imponibile. Tanto è vero che ci sono parlamentari che denunciano meno di 50 mila euro. Bene: sapete quanti senatori, stando all'ultima denuncia dei redditi disponibile, non arrivano a quel tetto che prevede la soprattassa? Il 45%, abbondante. Quanti deputati? Addirittura 378, pari al 60%. Totale: 523 parlamentari su 951 non lo pagheranno, quel raddoppio di una tantum . E gli altri lo pagheranno solo perché, oltre a quello del parlamentare, fanno troppo spesso altri lavori. Cosa che, nei Paesi seri, è vietata. Perché, direte, non introducono invece questo divieto a mantenere i piedi in due staffe? Ovvio: è molto più conveniente pagare la soprattassa. E magari vantarsene pure.
Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella

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