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giovedì 30 giugno 2011

Salvatore Lupo, quotato studioso della mafia in ambito italiano

Dal n. 21, aprile 2011- della Rivista "Mediterranea-Ricerche Storiche" riprendiamo l'analisi sul libro-intervista di Gaetano Savatteri a Salvatore Lupo, storico dell'Università di Palermo.
Come i lettori ricorderanno il Blog sta portando avanti una ipotesi di lettura collettiva del libro di Anton Blok "La  mafia di un villaggio siciliano". Il brano che riportiamo sotto, che esprime il punto di vista di Salvatore Lupo è utile per la panoramica che ci interessa. Salvatore Lupo è peraltro lo storico che ha contestato ad Anton Blok l'uso -nel libro su Contessa Entellina- dei "pseudonimi per luoghi e persone".

Salvatore Lupo
Potere criminale.
Intervista sulla storia della mafia,
a cura di Gaetano Savatteri, Laterza,
Roma-Bari, 2010, pp. 192

«…per troppo tempo ci siamo raccontati la favola che la mafia fosse figlia del sottosviluppo. Poi abbiamo invertito i termini del discorso dicendo che il sottosviluppo è figlio della mafia.
Entrambe le proposizioni sono errate».
Si potrebbe dire, usando un linguaggio sportivo, che Salvatore Lupo entra in argomento a gamba tesa di fronte alle intelligenti e puntuali provocazioni di un giornalista di razza qual è Gaetano Savatteri.
Da queste prime battute, si comprende bene il percorso che lo studioso intende svolgere, un percorso che incontra la domanda di fondo su cosa sia in realtà la mafia. Una domanda che ha visto letture fuorvianti come quelle, definite in altro testo dello stesso autore «fumisterie culturologiche», di Giuseppe Pitré che, come affermato dal socialista Giuseppe Marchesano «ci ha spiegato che cosa non è» la mafia. Proprio l’illustre studioso palermitano è, infatti, responsabile della nobilitazione del paradigma che porta al negazionismo che ha dominato per decine di anni la cultura siciliana, cioè che la mafia non esiste ed invece esistono i comportamenti mafiosi e che quanto si fantastica di mafia come organizzazione criminale, si tende solo a calunniare la Sicilia. Un paradigma che tuttavia nasce anni dopo il processo unitario considerato che, almeno dall’unità in poi, non ci si faceva scrupolo dall’affermarne l’esistenza, basta ricordare il testo di Nicolò Turrisi Colonna del 1864.
Ma altrettanto insufficienti, se non errate sono state quelle offerte dalle analisi della cultura del mondo della sinistra di cui evidenzia l’equivoco di fondo, cioè il considerare la mafia come «forma primitiva di lotta sociale», o, secondo la interpretazione del sociologo Henner Hess «come specchio di una cultura mediterranea resistente alla moderna etica statale». Un fossile culturale che il trionfo della modernità avrebbe travolto, senza così comprenderne la grande capacità mimetica ch’essa ha sempre dimostrato. «La mafia – afferma a chiare lettere l’autore– è patologia della modernità».
Lupo non fa concessioni alla retorica né, tantomeno, ai luoghi comuni che hanno reso, perfino, difficile un approccio scientifico al tema trattato, a cominciare da una interpretazione che la pubblicistica ha consolidato che fa di Cosa Nostra un’impresa, leit motiv del fortunato libro di Arlacchi La mafia imprenditrice, una Spa «in grado di gestire tutto il malaffare». Stesso trattamento l’autore riserva alla cosiddetta Cupola mafiosa della quale, pur non negandone in alcuni momenti una esistenza, ne ridimensiona il concetto di stabilità e di costante capacità di intermediazione per garantire sempre la pax mafiosa. E, ancora, la esistenza di un terzo livello, che l’autore d’accordo con la tesi di Falcone, considera manifestazione di grave rozzezza intellettuale.
I mafiosi farebbero riferimento ad un sistema di valori che ne cementano e orientano le scelte. «…se non vogliamo essere intellettualmente pavidi dobbiamo effettivamente ammettere – e Lupo fa riferimento ai disvalori dei mafiosi - che di un sistema di valori si tratta. Grazie ad esso si comunica all’interno della mafia, nonché tra chi vi sta dentro e chi ne sta fuori, provando a raggiungere anche perfino quanti sono contro la mafia». Un insieme di valori – famiglia, religione, ordine – che sono quelli fondanti della società siciliana ai quali il mafioso “porta rispetto” perché agli stessi non si sente estraneo. Alla luce di quanto sopra, non può destare meraviglia il fatto che il «mafioso si sente cattolico»: infatti «nella società siciliana essere o apparire cattolici è molto importante, ricordiamo che in dialetto si dice ‘cristiani’ per indicare gli esseri umani». Pur non dimenticando che anche nel periodo borbonico uomini e organizzazioni che possano essere considerati tali vi fossero, per Lupo la mafia, almeno nelle forme arcaiche, «nasce nel periodo di transizione, del passaggio dallo Stato borbonico a quello unitario». Si potrebbe dire che con l’unità l’Italia scopre la mafia. Inoltre, a smentita di quanti pensano che le autorità pubbliche non avessero compreso la gravità del fenomeno, ricorda documenti ufficiali che dimostrano proprio il contrario. Da essi traiamo l’indicazione di alcuni fatti e comportamenti che caratterizzeranno la storia della mafia come:
a) la deferenza dei mafiosi verso le élites;
b) il loro radicamento territoriale;
c) la polizia scopre quello che le è ben noto.
Può destare sorpresa un’affermazione come quella che lo storico formula affermando che con la mafia nasce anche l’antimafia, naturalmente non l’antimafia come si manifesta platealmente oggi, ma come resistenza al potere mafioso in quanto incompatibile con i fondamenti di una società liberale che considerava la proprietà, ed i mafiosi aggredivano la proprietà, la base dell’ordine sociale. Ne è esempio la forte reazione nel momento in cui viene ucciso Notarbartolo, ma quest’ultima reazione venne subito soffocata da quella visione culturalista che alimenta il sempre presente sicilianismo.
In merito all’operazione Mori, manifestazione massima dell’antimafia fascista, Lupo non ha dubbi nell’affermare che, al di là degli aspetti propagandistici, particolarmente curati dalla comunicazione di regime, si potrebbe definire «una variante regionale della generale epurazione del Partito nazionale fascista, intrapresa dalla segreteria di Augusto Turati a partire dal ‘26», cioè espressione della lotta di potere interna al partito diretta alla liquidazione della fazione di Farinacci. Non a caso viene scelto a condurre l’operazione un uomo che avrebbe potuto essere considerato un nemico del fascismo e che in Sicilia ne sia stata, illustre, vittima Alfredo Cucco, l’esponente più importante del movimento fascista che faceva capo a Farinacci. A giudizio di Lupo, l’impatto mediatico fu notevole, i risultati certamente inferiori alle aspettative anche perché, afferma l’A., il fascismo non ha mai chiamato la classe dirigente locale a rendere conto delle sue complicità. Un risultato positivo da accreditare ai fascisti lo evidenzia, però, Savatteri, scrivendo che i fascisti «furono i primi a presentare la mafia come un disvalore in sé, da condannare e rifiutare, quantomeno nelle prese di posizioni pubbliche».
Un tema delicato, e controverso, è quello dei rapporti con l’altra sponda dell’Oceano. Se è vero che i rapporti fra mafia siciliana e americana sono stati stretti in ogni tempo, a giudizio di Lupo è solo negli anni del primo dopoguerra che, attraverso il trasferimento di mafiosi “molto qualificati”, si forma il gruppo costitutivo di Cosa Nostra. A quest’esodo diede una mano il fascismo, molti fuggirono per non incappare nella repressione fascista, ma molti erano andati in America per ragioni pratiche; negli States, infatti, l’emigrazione era «fruttifera, perché in America c’era il proibizionismo e lì avrebbero fatto i soldi». Cosa nostra cambia il modo di operare della criminalità mafiosa, mentre infatti la “Mano nera”, l’antecedente di Cosa Nostra, praticava il crimine all’interno della comunità italiana, la nuova Mafia, composta da soggetti integrati, estende ora la sua perversa attività all’intera società americana.
In ogni caso, fra le due sponde c’è sempre stato un rapporto forte che neppure il fascismo riesce a spezzare.
Ed a proposito di questo rapporto, Lupo manifesta la sua diffidenza su certe tesi oleografiche relative al contributo che la mafia, e soprattutto Lucky Luciano, hanno dato allo sbarco degli Alleati in Sicilia del ’43 e al coinvolgimento  della stessa come interlocutore privilegiato (principalmente gli americani) negli anni dell’amministrazione dell’Amgot. Se patto ci fu fra Cosa nostra e governo americano, e la liberazione di Luciano condannato a trent’anni lo dimostra, fu quello di scambiare la liberazione di boss contro l’impegno a tenere buoni i sindacati dei lavoratori del porto di New York, e questo per garantire l’ordine ed evitare scioperi ostruzionistici in un momento in cui era necessaria “massima compattezza” per vincere la sfida bellica.
Sull’argomento conclude, affermando, che molte tesi sulla collaborazione fra americani e mafia sono frutto di fantasia come è frutto di semplificazioni banali «l’idea secondo la cui qualcuno a Washington abbia tramato per promuovere le fortune della mafia».
Più delicata, e complessa, è l’interpretazione che Lupo dà della mafia nel dopoguerra, soprattutto in relazione agli eclatanti episodi di terrorismo mafioso. Forte, ma condivisibile, è la sua affermazione a proposito della strage di Portella delle Ginestre: «se la strage ha un senso politico regionale - afferma - è quello di radicalizzare lo scontro aumentando il valore del sostegno della destra (di alcuni gruppi della destra) alla Dc». Ed a proposito del gran parlare di mafia da parte della sinistra, Lupo afferma come siano penetrati nella cultura in generale del mondo della sinistra le convinzioni che parlare di mafia sia necessariamente parlare contro la mafia o che l’antimafia debba, anche qui necessariamente, coincidere con un discorso di sinistra. Di questo assunto è corollario che la polemica sulla mafia, del Pci fu fatta coincidere con quella contro la Dc. Il guaio, secondo l’autore, è che negli anni cinquanta «l’immagine della mafia viene elaborata esclusivamente attraverso la lente della politica ed in una logica fortissima di schieramento».
E arriviamo agli anni del sacco di Palermo e alle guerre di mafia che insanguinano, soprattutto le strade palermitane. Lupo ridimensiona la tesi di una mafia delle campagne che si muove alla conquista della città: «la mafia del sacco edilizio – afferma - è palermitana … legata agli interessi delle élites fondiarie delle borgate e dell’hinterland, le cui aziende ha sempre controllate attraverso una rete di intermediari
commerciali e di guardiani».
Anche quella dei corleonesi, che impongono uno stile, piuttosto che diverso, più dinamico, può essere considerata un’appendice di quella palermitana.
Essa mafia fa valere la propria “rendita di posizione” intendendo sfruttare i benefici che derivano dall’enorme aumento del valore dei terreni «che da sempre presidiano». Il contrasto, quello delle forze ad esso deputate, non si manifesta all’altezza del compito, non lo sarà per molto tempo. E tuttavia qualcosa cambia con la strage di Ciaculli, «la strage – sostiene Lupo - fa della mafia (finalmente) un problema di ordine pubblico». L’istituzione della Commissione parlamentare antimafia è la risposta più alta che in quel tempo si mette in campo. E proprio sulla Commissione, Lupo afferma che i suoi materiali più interessanti, pur contenendo risposte significative, non sono stati adeguatamente letti mentre ci si è soffermati, e le relazioni di maggioranza ma anche di minoranza lo dimostrano, su aspetti già noti nel dibattito pubblico. A questo proposito piglia ad esempio la vicenda del giudice Terranova ucciso, a suo giudizio, per le idee più precise e per le analisi più approfondite che si era fatte nel corso della sua attività di parlamentare componente della Commissione antimafia.
Fra le idee sbagliate, ed in questo caso prende in esame l’assassinio del procuratore Scaglione, c’è quella che «la mafia non ammazzi magistrati o uomini dello Stato, se non nel caso siano suoi complici».
A partire dagli anni ’70 inizia la mattanza ad opera dei corleonesi che, a dire di Lupo, hanno realizzato una sorta di colpo di Stato al suo interno, e che tentano «di fare di Cosa Nostra qualcosa di simile alla sua leggenda: una superorganizzazione, con un supercapo». Mentre comincia ad emergere l’idea che sia necessario da un lato dare vita a specifiche strutture inquirenti ma, anche, ricorrere a provvedimenti emergenziali che vanno al di là anche del garantismo e del legalitarismo che anche a sinistra è radicato e preteso, i corleonesi alzano il tiro innescando un meccanismo perverso di azione e reazione. «Ogni delitto di mafia provoca allarme e la ricerca di nuove soluzioni. Ogni nuova soluzione provoca una sanguinosa reazione». In questa sequenza, perversa, lo Stato appare perdente perché le sue reazioni sono più lente a causa delle regole che ne impacciano l’azione. Si verifica, in quegli anni, qualcosa di simile a quanto già era avvenuto per il terrorismo, «Cosa nostra uccide per ostentare il proprio potere, per lanciare un messaggio intimidatorio poderoso, ma generico, alle classi dirigenti e all’opinione pubblica».
Ma, proprio il massimo di arroganza, produce una, forse inaspettata, reazione dell’opinione pubblica. Si tratta di un movimento minoritario cittadino e borghese, che mette in difficoltà il «moderatismo comunista» carico di “presunzione di superiorità” che consente ai discorsi radicaleggianti di Orlando di trovare un’enorme audience da farne un leader dell’antimafia. A fronte di questo, però, i partiti e la sinistra in particolare, mostrano un grave ritardo culturale e politico. «L’antimafia che nasce porta in qualche maniera ad un nuovo senso dello Stato», «segmenti di istituzioni a lungo considerati come la faccia cattiva dello Stato ‘separato’ ? polizia,carabinieri, magistratura penale si trasformano in campioni della società civile».
Un giudizio che consideriamo poco condivisibile è quello che Lupo dà della gerarchia e segnatamente del cardinale Pappalardo. Sulla scorta della interpretazione non benevola della sociologa Alessandra Dino, Lupo formula ampie perplessità sulla azione dell’alto prelato, soprattutto in relazione alla prima parte del suo magistero caratterizzata dalla stretta nei confronti di preti che avevano assunto posizioni ‘politicamente eterodosse’. Lupo, come d’altra parte la Dino nell’interpretare il comportamento di Pappalardo non tengono infatti conto delle difficoltà in cui un uomo di chiesa si trova ad operare. Difficoltà che nascono dalla specificità del magistero che vede la centralità dell’uomo e la sua conversione. Le interpretazioni sociologizzanti mal si sposano con il magistero della Chiesa.
Stimolato da Savatteri, Lupo si sofferma anche su due vicende che hanno segnato il dibattito pubblico sulla mafia. La prima, quella innescata dalla polemica di Sciascia sul cosiddetto professionismo antimafioso. Quella presa di posizione, Lupo la fa risalire a una pregiudiziale personale dello scrittore di Racalmuto, comune alla vecchia sinistra, sintetizzabile nell’idea che la repressione statale finiva per colpiredeboli e oppositori. «L’antimafia – scrive Lupo interpretando la posizione di Sciascia – è mossa da interessi, e la sua aspirazione alla riforma morale non deve nascondere l’intenzione politica».
Della posizione di Sciascia dà un giudizio negativo ma dà anche un giudizio negativo sul comunicato del coordinamento antimafia che «mascherandosi da società civile, rifiutava di pensarsi come una parte politica, e dunque di ammettere la liceità di posizioni diverse dalla sua». La seconda, il valore della “cantata” di Buscetta e il suo reale peso. Lupo considera il personaggio, come esponente della cosiddetta terza mafia, non appartenente a quella d’oltreoceano né a quella palermitana, ma di quella che si carica del compito di “esternalizzazione del rischio”. Condividendo Falcone, accetta l’idea che Buscetta sia stato importante per il fatto che ha fornito le coordinate per orientarsi nella comprensione della mafia.
La parte finale del volume è dedicata a questi ultimi anni, ed è estremamente interessante perché interpreta le cronache recenti con gli strumenti e l’intelligenza di uno storico che vuole separare le ragioni politiche dall’analisi della realtà. «La lotta alla mafia – afferma Lupo, che incline alla cautela appare, quasi, infastidito per le tante analisi dietrologiche – deve dare quello che può dare e deve essere valutata per quello che ha dato e sta dando. Il resto è lotta politica». Così rifiuta di vedere una sorta di “trama occulta” per spiegare il perché le simpatie di alcuni mafiosi andarono al partito di Berlusconi nel ’94, osservando che essi indirizzarono «i loro consensi verso la nuova offerta politica di area ‘moderata’ come fecero tanti gruppi di interesse, e milioni di cittadini italiani». Ed ancora, che le stragi volute dai corleonesi, furono un tentativo, sbagliato, in quanto indicano «la rottura fra mafia e Stato». Chiara è, ancora, la sua interpretazione dell’attività terroristica mafiosa: «allo stato delle mie conoscenze, continuo a ritenere la scelta terroristica dei primi degli anni Novanta come il frutto di una sorta di estrema coazione a ripetere, da attribuirsi in prima battuta a quanti su quella strategia più di altri avevano puntato, sino a farne un marchio di fabbrica: Riina e soci». Sui processi politici, e il riferimento è al procuratore Giancarlo Caselli relativamente al processo Andreotti, non ha remore ad affermare che «non è forse sbagliato che la prova debba essere più solida di quanto avviene nei processi di altra natura». A conclusione dell’analisi serrata, di fronte alla provocazione di Savatteri sulla possibilità di ipotizzare un futuro senza mafia o con una mafia legalizzata, Lupo risponde in maniera chiara che «è necessario approntare strumenti più sofisticati (analitici, legali e operativi) per definire le dinamiche operanti negli strati più profondi della società, per limitare i poteri nascosti, che, sovrapponendosi a quelli legali e costituzionali, finiscono per negare il diritto di ognuno».
Pasquale Hamel

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