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lunedì 11 aprile 2011

Leggiamo insieme il libro di Anton Blok su Contessa Entellina (1)

Capitolo Primo

Il primo capitolo del libro di Anton Blok, "La mafia di un villaggio siciliano", inizia delimitando il campo dell'indagine, che da parte nostra abbiamo gia' individuato nell'eccesso di potere che contestualmente grava (vorremmo poter dire gravava) sulla popolazione, sulle fasce piu' deboli, in quest'angolo di Sicilia.
Da un lato il potere dell'autorità legale centrale (governativa)  che pero' non dispiega tutte le prerogative perchè deve lasciare sopravviveve (convivere) il potere locale dei notabili che delle prerogative pubbliche pero' si servono per perseguire propri interessi.
Il libro vuole spiegare come gli intermediari del potere, i notabili locali che controllano il territorio, vanificano la "legalità".
Il periodo ed l'area che sono oggetto della ricerca dell'antropologo olandese sono rispettivamente gli anni 1860 - 1960 ed il territorio di Genuardo, pseudonimo di Contessa Entellina, caratterizzato questo dal grande latifondo, incubatoio entro cui la mafia e' nata e poi cresciuta.
Blok riferisce che Contessa nel periodo dell'Unita' d'Italia contava 3.400 abitanti, che diventeranno 1.900 nel primo dopoguerra (dopo il grande esodo verso l'America) e 2.600 (di cui pero' 500 lavoratori emigrati, e quindi assenti) nella meta' degli anni sessanta del Novecento.
Nel primo capitolo, per sottolineare la natura rurale, contadino-meridionale, della realtà locale viene evidenziato che l'insediamento urbano, o meglio il centro abitato, e' fisicamente, separato e lontano- dalla terra che i residente lavorano (agro-town).
Il termine "mafia" a Contessa viene interpretato dalla gente variamente e l'antropologo olandese riporta alcune delle visioni raccolte. Per alcuni si tratta di una associazione criminale che opera ai .margini, in posizione defilata, della società. Per altri e' un corpo antagonista del potere pubblico; non manca chi nega l'esistenza della mafia, che non sarebbe altro che una invenzione, una fantasia, per diffamare l'immagine dell'isola. Ognuna delle interpretazione appare comprensibile agli occhi dell'autore che le giustifica in relazion alla posizione sociale delle persone che le esternano.
Egli passa quindi a precisare in quale senso si servirà del termine "mafia" nel libro: "l'uso privato della violenza come mezzo di controllo, di controllo sociale". La mafia e' per l'autore una forma di violenza illegale e coloro che se ne avvalgono sono chiamati "mafiosi".
Blok evidenzia che "i mafiosi prendono decisioni che interessano la comunità. Il pubblico, il politico-sociale e' il loro campo d'azione".
I mafiosi operano praticamente sullo stesso terreno di pertinenza delle autorità pubbliche e i loro rapporti con queste "sono profondamente ambivalenti". Da un lato, essi non rispettano la legge e sono in grado di opporsi alle pressioni dell'apparato giuridico e governativo. D'altro, agiscono in connivenza con l'autorità ufficiale e rafforzano il proprio controllo sociale attraverso rapporti occulti, ma concreti, con coloro che ricoprono cariche ufficiali. Questa simbiosi li differenzia dai fuorilegge e dai banditi, le cui aree di potere sono pure fondate sull'uso della forza ma in aperto conflitto con quelle dello stato.
Dopo queste puntualizzazioni l'autore precisa che si servira' del termine 'mafia' sia con riferimento alla comunità oggetto della indagine che al contesto più vasto a cui la comunità di Contessa Entellina appartiene.
Il saggio si propone infatti di dimostrare come la mafia si sia interposta, incuneata, fra l'erigendo stato moderno e le strutture feudali della società locale. La mafia viene a configurarsi come un "modus vivendi" fra le esigenze formali, tecnico-giuridiche, dello stato moderno che tenta di accreditarsi e ad imporsi sul precedente mondo sociale dominato dai baroni e, appunto, il modo di vivere tradizionale delle realtà locali. I mafiosi hanno saputo colmare vuoti di intendere fra lo stato ed i livelli inferiori della società.
Da qui l'uso di definire il mafioso come un intermediario, un mediatore del potere che si propone di conservare il controllo dei canali che collegano l'apparato pubblico della comunità locale con i centri di potere dello Stato.
Per i mafiosi e' vitale, è essenziale, ritrovarsi nei punti chiave o di giuntura che collegano il sistema di potere locale con l'insieme più vasto della società.
I mafiosi si distinguono dagli altri intermediari -che pure esistono- per due caratteristiche:
1. Essi approfittano dei vuoti che caratterizzano la comunicazione, la relazionalita', fra la comunità contadina ed il centro del potere pubblico sovrastante. Al contrario del politico onesto che tende a colmare ed eliminare il vuoto, essi prosperano proprio in questi interstizi.
2. Essi rafforzano la loro posizione di "intermediari" facendo largo uso della minaccia e praticando in forma sistematica la violenza fisica.
Da quanto finora siamo venuti enucleando viene fuori che Blok per puntare a dimostrare la tesi secondo cui la mafia è effetto della circostanza secondo cui lo Stato non è riuscito, nelle nostre zone, ad assicurarsi il monopolio della violenza, punterà a descrivere la vita sociale sia all'interno del paese (Contessa Entellina) che nella campagna su cui i contessioti lavorano oltre che nel mondo esterno (autorità centrali).
Gli attori, i protagonisti del libro saranno pertanto:
- i proprietari fondiari
- i contadini
- i professionisti
- i funzionari pubblici
- i politici.
La mafia non sarebbe mai riuscita a diventare ciò che e' divenuta se non fosse entrata in rapporto di interdipendenza con i gruppi sociali elencati, sia per procurarsi alleati che per abbattere nemici.
E' notorio che sin dalla fine del Settecento lo Stato borbonico tento' di ridurre il potere immenso che l'aristocrazia isolana deteneva. Per perseguire questo disegno il governo si proponeva di attribuire solamente allo Stato il potere e l'uso della violenza che fino ad allora era stata invece nella disponibilità dei nobili all'interno delle rispettive baronie, dove essi svolgevano ruoli di legislatori, giudici, organi di amministrazione e di polizia etc. Il governo borbonico si proponeva, per contenere l'invadenza baronale, di favorire anche la crescita di una classe medio-contadina che potesse fare da contrappeso all'aristocrazia. Su queste prospettive aboli' i privilegi feudali e la terra divenne una merce come un'altra, accessibile anche ai contadini.
Insorsero come era prevedibile tensioni fra il governo centrale ed i baroni che avevano fino ad allora avuto l'esclusivo controllo sulla terra e sui contadini.
E' all'interno di queste tensioni che vedono protagonisti il governo centrale, gli antichi baroni ed i contadini che deve essere individuato, secondo Blok, il seme, il germoglio di ciò che in appresso diventerà "mafia". E' proprio in questo contesto di sommovimento sociale che si afferma il già ricordato "modus vivendi":  (i mafiosi venivano reclutati fra le fila dei contadini allo scopo di fornire ai grandi latifondisti il personale armato con cui far fronte sia alla pressione dello Stato borbonico sia agli stessi contadini riottosi, in particolare nelle aree dell'interno, dove lo stato non riuscì mai a monopolizzare l'uso della violenza).
E' lo stesso Mack Smith che evidenzia come lo Stato borbonico mantenesse più o meno 350 poliziotti per mantenere l'ordine pubblica in tutta l'isola.
E' in questo quadro quindi che la mafia viene a configurarsi come strumento di controllo del territorio a beneficio dei latifondisti ed al contempo appare strumento di ascesa sociale in quanto apre canali ai contadini e trasforma in alleati banditi e fuorilegge.
Dopo l'Unita' queste connessioni e queste collusioni apparvero ancora più evidenti, anche perché ai vecchi possessori aristocratici della terra vennero ad aggiungersi altri ceti che ad essi comunque si amalgamarono. A partire dall'Unita' il termine "mafia" entro' nel vocabolario degli italiani, sia pure con significati non sempre omogenei.
Lo Stato italiano riuscì ad accentrare in se' l'uso della violenza solamente durante il ventennio fascista, ma alla caduta del regime la mafia riprese il controllo del territorio e si interpose nuovamente nei punti di giuntura della società.
A questo punto del primo capitolo del libro, Blok ci informa di una delle metodologie che saranno seguite nel dispiegarsi del libro. Per capire come e perché i mafiosi poterono tenere nella società siciliana un così rilevante ruolo chiave egli osserverà il fenomeno a partire dal livello locale, sia pure tenendo nella debita considerazione quanto viene configurandosi nel contesto più ampio e più alto della società. Egli analizzerà quindi nel corso del libro anche le interrelazioni che esistono all'interno della vita sociale del paese (Contessa Entellina) e col livello del potere pubblico formale.
Contessa Entellina sara', nell'economia descrittiva del libro, il teatro dell'azione e della storia che si sviluppa in contemporanea all'evoluzione dell'occupazione della terra. E' attraverso questo percorso che il lettore potrà capire lo scenario su cui la mafia locale operava e prosperava.
L'autore nell'avviarsi alla conclusione del primo capitolo, e dopo essersi soffermato sulla bibliografia disponibile al tempo in cui il libro fu scritto (anni '70 del Novecento), ci allerta: " una cosa e' descrivere le loro azioni (dei mafiosi) come atti criminali; tutt'altra cosa e' spiegare come e perché queste persone potessero agire impunemente al di fuori dei limiti della legalità. Non e' compito dell'antropologo accusare o assolvere perché questo genere di valutazioni e' estraneo agli scopi del suo lavoro. Egli deve piuttosto applicarsi allo studio degli esseri umani partendo dalle interdipendenze che li legano, i modi in cui essi fondamentalmente dipendono l'uno dall'altro, con modalità e configurazioni diverse..".
Per far capire l'intendimento, Blok riporta un episodio tratto da un libro di Danilo Dolci del 1960 dove viene descritto il sequestro ad opera di alcuni mafiosi del sindacalista socialista Placido Rizzotto avvenuto in pieno centro a Corleone, fra tantissima gente presenti. Noi ci limitiamo ad estrapolare poche frasi da quella amara descrizione (ripresa da un compagno del sindacalista) e a chiudere con la considerazione finale di Blok.
"... Immediatamente lui capisce, cerca di scappare salendo la gradinata a destra. Arrivato in cima altre due persone gli buttano delle coperte in testa, lo afferrano, lo pestano come l'uva, lo convogliano, lo buttano in una macchina che era a venti metri di distanza, e via. Lui grida, strilla. Nessuno lo vuole sentire. E vuoi che sia giusto che uno si faccia ammazzare per della gente s'e questa non vuole vedere e non vuole sentire ? . . .
Se i contadini che seguivano Placido avessero preso una pietra di cento grammi l'una, li avrebbero annientati quei quattro mafiosi, ma non l'hanno fatto ....
Il motivo del mio enorme dolore e' questo: il rimedio c'era. Perché non sono corsi ? Perché l'hanno lasciato ammazzare ? ".
Conclude Blok: "E' al tentativo di capire avvenimenti come questo che il mio lavoro e' dedicato".

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