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sabato 5 marzo 2011

Leonardo Sciascia, una intervista del 1979 (IV)

Uno scrittore siciliano a Parigi

D.: Nell’Introduzione a narratori di Sicilia lei parla dello scrittore siciliano che fuggendo “comincia a sentire delorosamente la lontananza della Sicilia”.
R.: Sì, si sente in esilio.
D.: Invece come spiegare il fascino esercitato su di lei da Parigi e dalla cultura francese ?
R.: Beh, questa è una storia che riguarda la storia siciliana. C’è stato sempre questo rapporto culturale con la Francia. Dal Settecento in poi. La Sicilia ha questo rapporto, scavalcando l’Italia, con la letteratura francese. Il primo scrittore siciliano che scrive col gusto di scrivere, che racconta col gusto di raccontare è Palmeri di Miccichè che scrive in francese. Ha scritto un certo numero di libri di memorie in francese, bellissime. Poi fino ad ora c’è stato qualcun altro che scriveva direttamente in francese, in Sicilia. C’era un barone, il barone Fatta, che scriveva e pubblicava in Francia. Ha scritto una storia dello snobismo, per esempio.
D.: Dunque lei scrittore siciliano a Parigi, ubbidisce alla tradizione storica, alla storia tradizionale della narrativa siciliana ?
R.: Si, sono lì dentro, insomma. Vivo in questa tradizione narrativa siciliana che è italiana, però con carattere proprio, diverso, insomma. Direi che la caratteristica della tradizione narrativa siciliana è quella del realismo, un realismo sempre inteso in una giusta misura non come copia della realtà, benché a un certo punto si fosse creduto che si potesse fare una copia della realtà. Ma, in realtà, il verismo di Verga, il realismo di Verga, non si può dire che sia un realismo fotografico, è poesia.
D.: E lei, invece, non direbbe di appartenere a quella tradizione ?
R.: No, non mi sento nella tradizione siciliana. Mi sento nella linea di uno scrittore come De Roberto, come Pirandello, come Brancati.
D.: Che cosa deve lei a Brancati ?
R.: Quando si parla di un certo costume, di un certo erotismo, di un certo vagheggiamento della donna da parte dell’uomo siciliano, lì c’è sempre la vena brancatiana. Quando c’è un po’ di satira come si sente in quel capitolo sul circolo in “Le parrocchie di Regalpetra”, lì c’è la vena brancantiana abbastanza scoperta direi, anche perché Brancati è uno scrittore che mi ha influenzato molto, uno scrittore che sento più vicino.

Una questione d’ordine generale

D.: Scrivendo l’articolo “The Sicilian Pantheon” sul Times Literary Supplement, non ha inserito il suo nome in nessuna corrente. Ci sarebbe da fare un confronto fra lei e Calvino, ad esempio ?
R.: Per mio conto, credo che Calvino ed io abbiamo in comune il Settecento, il Settecento francese, cioè gli illuministi, Voltaire. Calvino è uno scrittore che mi piace molto. Io lo amo molto, Calvino.
D.: Dove inserila in una storia della letteratura, dato che c’è una forte tendenza in Italia a voler sempre classificare gli scrittori ?
R.: In definitiva trovo sempre insufficienti i termini di “scuola”, di tendenza. Non mi interessano affatto. Ma che in Italia succeda questo, è vero. Però succede generalmente con tutta la letteratura dei siciliani. In Sicilia c’è stato in questi ultimi anni un poeta interessante, Lucio Piccolo. Ma lei difficilmente lo trova ricordato, oppure antologgizzato. E così via. Pirandello deve tutto alla Francia … Per un critico che era abbastanza intelligente, abbastanza acuto, Renato Serra, Pirandello era uno che stava accanto a Luciano Zuccoli. Questi era una specie di ufficiale di cavalleria che scriveva dei romanzi erotici … E Renato Serra gli metteva accanto Pirandello. Per Benedetto Croce, Pirandello non esiste: era un filosofo, era da buttare via. Così “I Vicerè” di Federico De Roberto, Benedetto Croce li liquida in una pagina e mezza, dicendo che “è un libro che non fa battere il cuore”, che De Roberto è “un ingegno prosaico”. Che vuol dire “un ingegno prosaico” ?! Perché scrive in prosa ? Sono cose incredibili … Lei guardi l’antologia di Gianfranco Contini, per esempio; nell’antologia di Gianfranco Contini, Pirandello è presente per una novella che è la più folcloristica: la “Sagra del signore della nave” che è una novella che si svolge ad Agrigento, in una festa paesana, piena di colore locale. Quindi, per Gianfranco Contini, questo filologo, grande critico, Pirandello è uno scrittore proprio da folclore. “Il Gattopardo”, Gianfranco Contini lo ritiene “un romanzo da bancarella”, un piccolo libro. Brancati, per lui, non esiste. E Brancati è lo scrittore, secondo me, più importante della generazione che precede la mia. Lucio Piccolo diceva: “Noi siciliani siamo antipatici”: Quindi c’è questa antipatia, che so … Pirandello se non fosse stato per la Francia, per Benjamin Crèmieux sarebbe ancora un piccolo scrittore da mettere accanto a Luciano Zuccoli. Per Verga, ci sono voluti degli anni perché fosse letto. E la cosa più intelligente per Verga lìha scritta il nostro Lawrence. Io trovo quella prefazione di Lawrence una bellezza straordinaria che raggiunge proprio il centro dell’opera verghiana. Tutta la critica su Verga è insufficiente, debole. Sono stati due siciliani, praticamente, che hanno capito Verga meglio: Luigi Russo e Giuseppe Antonio Borgese. Ecco! Un altro caso è quello di G.A. Borgese. Lei non sa quasi nulla di G.A. Borgese, vero ? In Italia se ne sa altrettanto. E’ Borgese che ha scritto dei libri interessantissimi, tra cui il romanzo “Rubè” che serve moltissimo a spiegare la situazione dell’uomo italiano tra fascismo e socialismo. Un libro che precede “Gli indifferenti”, che in un certo senso contiene già “Gli indifferenti” di Moravia. Questo libro non lo conosce nessuno. Borgese è uno dei più grandi geni che abbia avuto l’Italia letteraria, grande critico, grande narratore, che si è trovato in tutti i generi: era professore di letteratura tedesca. Ha scritto un saggio su D’Annunzio, straordinario. Però non lo conosce nessuno. Questa è la società letteraria italiana, cioè una non-società. Non per modestia, io le voglio dire come il fatto che il mio nome non si trovi nelle storie letterarie, nelle antologie, appartiene a una questione d’ordine generale: ciò che è accaduto a questi grandi scrittori siciliani, accade anche a me.

Il tirocio di Sciascia

D.: Lei si è modellato sui “rondisti”: “…debbo confessare che proprio sugli scrittori ‘rondisti’ –Savese, Cecchi, Barilli- ho imparato a scrivere” dice in quell’Avvertenza a Le parrocchie di Regalpetra.
R.: Quando parlo di “rondisti” intendo parlare della chiarezza formale. Il movimento di questa rivista, “La Ronda”, era una restaurazione dei valori classisi nello scrivere. Il loro modello di prosa era quello di Leopardi.
D.: E lei ammira Leopardi ?
R.: Leopardi pensatore anche più di Leopardi poeta.
(Continua)

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