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mercoledì 10 marzo 2010

Gli arbrëshë si imbattono nel feudalesimo siciliano (2)

Tentiamo di capire, pur in assenza di rappresentazioni descrittive puntuali, come gli arbrëshë si vennero a trovare di fronte all'ordinamento feudale vigente in Sicilia. In una prossima occasione vedremo pure quale fosse l'ordinamento giuridico vigente nella terra di origine (l'Epiro).
Gli arbrëshë dopo aver avuto in enfiteusi (a censito) i due feudi di Serradamo e Contesse curarono fra loro, con l'attenzione e gli intendimenti dei quattro giurati (che verosimilmente saranno stati i contraenti dei capitoli: Palumbo Ermi, Luca Carnesi, Paolo Zamandà e Giorgio Carnesi), e del mastro notaro (che doveva essere uomo del luogo), la ripartizione in quote dei due feudi.
Non sappiamo, e non disponiamo di atti documentali, se la ripartizione avvenne tranquillamente e senza contrasti. Certo a vigilare sull'ordine pubblico c'era il Capitano, uomo esperto di armi e di sicurezza pubblica, che faceva riferimento al barone. Nei locali baronali, situati dove oggi sorge il Palazzo Municipale, erano pronte, alla bisogna, le celle detentive per coloro che avessero avuto l'ardire di contestare l'operato dei giurati e di tutti gli altri uomini investiti nei servizi pubblici dall'Autorità baronale. Quelli erano tempi in cui la critica, la dialettica e la riflessione ad alta voce non era ammessa. La rivoluzione liberale e democratica arriverà tre secoli dopo con la presa della Bastiglia, a Parigi.
Una volta effettuata la ripartizione dei due feudi e delle aree su cui costruire, questa volta in via definitiva, il paese e la casa per le famiglie tipicamente patriarcali, ciascun nucleo familiare che avesse avuto parte alla censuazione otteneva, automaticamente, il diritto di partecipare all'assemblea civica. Era questa un organismo a cui aveva accesso solamente il ceto civile e quello dei 'burgisi'; in esso venivano dibattute, una volta l'anno, le linee strategiche a cui avrebbero dovuto poi attenersi nella loro azione i "giurati".  Nessuno comunque sopravvaluti la portata e l'importanza dell'assemblea civica. Non erano quelli, lo abbiamo più volte ribadito, tempi di democrazia. Erano organismi in cui i rappresentanti del barone, attraverso i funzionari della secrezia o di altre strutture, quale la corte giuratoria, preannunciavano, o lasciavano intendere, le intenzioni del Signore feudale per l'anno a venire. Gli eventuali 'emendamenti' che qualcuno del ceto 'civile' intendesse proporre, per essere approvati dall'assemblea, dovevano preliminarmente ottenere il parere di ragionevolezza dal barone o (come sarà quasi sempre il caso di Contessa) dal suo governatore -soprannominato: il barone assente-.
Era, in ogni caso, impossibile che il Governatore mostrasse nella pubblica assemblea condivisioni a proposte che venivano da un "tavolo" di vassalli, di sudditi.
L'Ordinamento feudale, contrariamente alle critiche e alle sufficienze con cui viene interpretato dagli uomini del terzo millennio,  era ampiamente condiviso e accettato dalla popolazione; esso godeva di giustificazioni persino teologiche. Era quella una società ordinata gerarchicamente finalizzata a garantire la "felicità" alla gente. Per conseguire la "felicità" ognuno doveva stare al proprio posto e adempiere al proprio mestiere "come le piccole, le mezzane e le grandi canne di un organo fanno, quando ... appena toccati i tasti della mano maestra non partorisce quell'istrumento che una dolce e piacevole armonia".

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