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domenica 13 dicembre 2009

Francesco Giunta e le indagini storiche sugli arbrëshë -5-

Viene rispettato il diritto di culto autonomo, al cui sostentamento dovevano provvedere i coloni. Ed è un fatto di estrema importanza, non solo religioso, ma anche culturale, perché attraverso il culto sarà possibile conservare più facilmente lingua e costumi. La richiesta degli Albanesi fu decisa, in questo campo, e venne accolta: “Item lu dictu magnificu signuri –si legge nei capitoli di Palazzo Adriano- permicti fari fari in lu dictu locu una cappella seu ecclesia per li dicti habitat uri, fari fari sacrificio, orari, diri missa, bactizzari et quantu cristiani divinu fari, et lu sacerdotu, lu quali servirà tali ecclesia, isa esempto et francu di omni cosa, mictendulu però li dicti habitat uri et non altru”.

Certamente il rapporto fra i diversi riti poteva essere più difficile, là dove la dipendenza dei coloni era verso un’autorità religiosa, il Vescovo di Monreale o l’Abate del Monastero di S. Giovanni degli Eremiti di Palermo. Ma conflitti veri e propri non dovettero sorgerne, se proprio nei capitoli di Mezzoiuso viene affermata la eventualità che “quando lu dictu previti fussi grecu, secundu li dicti populanti sunu, chi ipsi siano tenuti providiri la ecclesia di libri e di tucti quilli cosi che ad l’ordini loru grecu conveni”.

Se ci fermiamo un momento a considerare quanto ci consentono di dire i documenti notarili della fine del Quattrocento (dal 1489 al 1498), è possibile cogliere qualche dato importante. Anzitutto, in quell’epoca ormai gli Albanesi della Piana dell’arcivescovo, di Palazzo Adriano e di Mezzoiuso avevano in mano buona parte del commercio granario del Palermitano e si erano inseriti bene anche in quello degli animali da lavoro e da macello e del formaggio. In secondo luogo, essi agivano in gruppo, con una solidarietà che permetteva loro di ottenere anticipazioni sui futuri raccolti. Comunque, alla fine del sec. XV le comunità albanesi erano in fase di piena crescita, sia sul piano demografico, sia su quello sociale. La loro consistenza numerica andava da circa 7.500 unità originarie a 8.234 nel 1570 ed a 8.958 nel 1589. E questo quando la popolazione complessiva dell’isola non arrivava in quegli anni alle 800.000 unità.

Ma per una minoranza che si era trapiantata in un tessuto sociale per lingua e per costume non suoi e che continuava a configurarsi come un isola etno-culturale autonoma, l’incremento verificatosi nel volgere di un secolo va giudicato in tutta la sua importanza. E’, questa, una constatazione che mantiene tutta la sua attualità: se oggi, infatti, continuiamo a parlare dei nostri Albanesi, di una realtà viva che la Sicilia ha fatto sua, non è soltanto merito della gelosa conservazione che essi han fatto e continuano a fare del loro patrimonio culturale, perché c’è concomitante un merito di coloro che li hanno accolti e che ne han permesso la la sopravvivenza senza condizionamenti e senza assorbimenti.

E la misura della civiltà di un popolo può essere data anche dal rispetto che esso ha avuto ed ha per le minoranze conviventi.

Francesco Giunta
Professore di Storia Medioevale
nell’Università di Palermo

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