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venerdì 30 ottobre 2009

Art. 6 della Costituzione: "La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche" - Fra poche settimane compie 10 anni la legge 482/1999

   Fra poche settimane saranno trascorsi dieci anni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della legge 482/1999. E' la cosiddetta legge cornice che disciplina gli spazi di tutela e di valorizzazione della lingua di tutte le minoranze storiche residenti in Italia, fra cui gli Arbreshe. Sappiamo che il Consiglio dell'Unione BESA conta di ricordare la ricorrenza con una iniziativa pubblica, presumibilmente da svolgersi a Contessa.
   Noi intanto ricordiamo l'evento, preceduto di pochi mesi da una legge regionale di cui era stato protagonista nel portarla avanti il concittadino Francesco Di Martino e, in più tratti falcidiata dal commissario dello stato proprio perchè ancora non era stata varata la legge quadro nazionale, che così ha ricevuto una ulteriore spinta verso il suo approdo definitivo. La legge quadro è stata infatti, poi, fortemente voluta  dagli arbreshe di Sicilia e Calabria avvalendosi dell'impegno e della disponibilità dell'allora senatore Cesare Marini.
Riportiamo un interessante articolo pubblicato proprio oggi su "Il Fatto-quotidiano" che si inserisce nell'iniziativa di questo giornale tendente a illustrare, articolo per articolo, la
Costituzione della Repubblica Italiana.
Il Contessioto

Articolo 6: la lingua delle minoranze

La realtà di oggi pone interrogativi nuovi e pressanti, non prevedibili in fase costituente: quale tutela per le situazioni derivanti dal fenomeno dell’immigrazione, per le “nuove minoranze” ?
Di Lorenza Carlassare

L’articolo 6 recita : “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”, oltre che per le implicazioni specifiche, è importante perché riafferma un fondamentale principio, il pluralismo, che contrassegna la nostra democrazia. In questo senso la norma si lega all’articolo 5 relativo alle autonomie territoriali oltre che al principio generale dell’articolo 2 che tutela i diritti delle (e nelle) formazioni sociali, comunità intermedie fra i singoli e la repubblica. Il principio pluralista è espresso in varie disposizioni inserite nei principi fondamentali oltre che in vari punti della prima parte della Costituzione dalle minoranze linguistiche alle confessioni religiose, dai sindacati ai partiti alle associazioni di varia natura. Il pluralismo pervade tutto il sistema: è politico, territoriale, religioso, linguistico, culturale, sindacale. E le “differenze” non sono soltanto da difendere contro offese e discriminazioni, ma sono anche da tutelare e valorizzare.

Diverso è il contenuto e diversa la portata dell’articolo 6 rispetto all’articolo 3, comma I, che vieta discriminazioni in base alla lingua (così come in base alla religione, alla razza, al sesso, alle opinioni politiche, alle condizioni personali e sociali) garantendo a tutti in modo pari la libertà di lingua. L’articolo 6, viceversa, consente l’emanazione di “apposite norme” per le singole minoranze linguistiche alle quali viene offerta una tutela positiva, in particolare nei rapporti fra i componenti delle minoranze stesse e i pubblici uffici (giurisdizionali e amministrativi), in determinate zone mistilingue. La Corte costituzionale, a proposito dell’art. 6, ha precisato che la legislazione che su di esso si fonda determina un “trattamento specificatamente differenziato”, cioè una disciplina di eccezione. Il collegamento, dunque, è piuttosto con il secondo comma dell’art. 3 (che impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono la piena partecipazione) che giustifica “ipotesi legislative, apparentemente discriminatrici” che però “nella sostanza ribadiscono l’eguaglianza delle condizioni”. Così nello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige la lingua tedesca è parificata alla lingua italiana, e i cittadini di lingua tedesca della Provincia di Bolzano hanno la facoltà di usarla nei rapporti con gli uffici giudiziari e della pubblica amministrazione situati nella Provincia. Se è vero che l’uso della propria lingua del processo attiene al diritto di difesa, non ne va trascurata anche la valenza identitaria: l’uso di una determinata lingua esprime l’appartenenza di una persona a una determinata cultura. Perciò il medesimo Statuto –approvato con legge costituzionale come tutti gli Statuti delle Regioni ad autonomia differenziata (art. 116 Cost.)- prevede che l’insegnamento venga impartito nella lingua materna. In esso trova tutela anche la minoranza di lingua ladina per la quale pure, nelle leggi elettorali, è previsto un meccanismo che le consenta una rappresentanza politica propria. Le minoranze tutelate da altri Statuti speciali –francese e walser in Valle d’Aosta, slovena in Friuli Venezia Giulia- hanno un livello di tutela minore: manca un modello univoco di tutela delle minoranze, di certo assai diverse fra loro per dimensione e radicamento. L’unico punto in comune è il modello “territoriale” e non personale della tutela: i diritti linguistici della minoranza possono essere invocati solo nel territorio di insediamento che è riconosciuto come tale dalle autorità pubbliche. Benchè con la legge quadro n. 482 del 1999 si abbia finalmente una legislazione generale di attuazione dell’art. 6, restano profonde differenze nel trattamento; è comunque importante che la Corte costituzionale abbia riconosciuto che l’attuazione del principio non spetta solo allo Stato, ma anche alle Regioni; non poche norme di tutela sono state emanate dagli enti locali anche per far fronte alle difficoltà in cui si trovano le minoranze nuove, prive di ogni riconoscimento.

La presenza in una medesima porzione di territorio di popolazione di lingua diversa è stata uno dei motivi che hanno determinato la creazione di Regioni ad autonomia differenziata; e la tutela forte della minoranza linguistica tedesca trova la sua radice nell’accordo italo-austriaco De Gasperi-Gruber concluso a Parigi il 5 settembre 1946 che prefigura un’autonomia territoriale coincidente con l’area abitata da quella minoranza. Tuttavia l’art. 6 come riconoscimento del “diritto alla differenza” del gruppo minoritario, collocato tra i principi fondamentali, ha un valore generale in armonia col pluralismo che connota il sistema intero. Torna anche qui l’ispirazione costituzionale di fondo: la nostra non è una democrazia maggioritaria dove solo la maggioranza ha voce, ma una democrazia pluralista che non vuole assimilare le differenze. E’ un quadro complessivo nel quale tutto si lega: nello stato “democratico di diritto” che fa propri i principi del costituzionalismo liberale, democrazia non significa dominio della maggioranza: i diritti degli altri esigono riconoscimento e tutela. La realtà del nostro tempo pone interrogativi nuovi e pressanti, non prevedibili in fase costituente: quale tutela per le situazioni derivanti dal fenomeno dell’immigrazione, quale tutela per le “nuove minoranze” ? La loro diffusione nel territorio italiano le rende certamente diverse dalle minoranze storiche, concentrate in una porzione del territorio (cui è legato il riconoscimento dell’autorità). L’articolo 6 potrà estendersi a questi nuovi soggetti ? Forse l’estensione potrà avvenire più facilmente se si guarderà non solo al diritto della minoranza come collettività, ma al diritto dei singoli individui che ne fanno parte.


giovedì 29 ottobre 2009

La giunta di Contessa Entellina - Ogni servizio pubblico che non funziona viene giustamente attribuito al sindaco ma c'è altra gente che percepisce indennità e che non può lavarsi le mani.

IIl Il Contessioto ritiene doveroso occuparsi, oltre che di storia, avvenimenti ed altro, anche della vita civica. Lo farà ora con spirito costruttivo e collaborativo, ed ora con punzecchiature e polemiche. Tutto dipenderà dai momenti e dai comportamenti. D'altronde chi riveste incarichi pubblici sa, e deve sapere, che deve essere sottoposto alle valutazioni e ai giudizi esterni. Se questa circostanza non gli piace non gli resta che andarsene a casa. Anche questa è democrazia.
Nessuno se la pigli se talora useremo un pò di ironia e di sfottò. Serve per dare sale alla vita comunitaria.
Il Contessioto
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Gli Amministratori Comunali:
PARRINO Sergio (Pdl, stando al comportamento delle elezioni europee) - Sindaco
MESSINA Antonino (Pd) - Lavori pubblici, urbanistica, ambiente e territorio, servizi a rete, pubblica istruzione, depurazione e viabilità;
MUSACCHIA Tiziana (?) - Cultura, biblioteca, musei pubblica istruzione, spettacoli ed affari generali;
BELLINI Giuseppina ( ? ) - Turismo, servizi produttivi, politiche giovanili, tempo libero, sport, pari opportunità, relazioni con il pubblico, verde pubblico urbano, Protezione civile;
GUZZARDI Stefano (Pd) - Servizi finanziari, patrimonio, economato ed autoparco, servizi tributari e gestione entrate, politiche comunitarie e di sviluppo, agricoltura, commercio, industria, artigianato.

L'OSSERVAZIONE DA RIDERE
Le deleghe agli assessori (come sopra riportate sono riprese dal sito web del Comune ed ovviamente abbiamo fatto scorta di copie prima che venga modificata)  sono distribuite in modo tale da farci comprendere il perchè agli amministratori non interessi nulla della nostra scuola e dell'avvenire dei ragazzi.
Il sindaco ha dato la delega della pubblica istruzione a due assessori, cosicchè la Tiziana ritiene che Antonio stia provvedendo lui, mentre Antonio ritiene che se ne stia occupando la Tiziana.
Ognuno ha una buona scusa per vivere il dolce far nulla.

L'ALTRA OSSERVAZIONE DA RIDERE
Le voci che corrono in paese dicono che a breve ci sarà un rimpasto di giunta (parola culinaria per intendere che qualcuno sta per essere fregato e maneggiato per poi essere 'infornato');
Vuoi vedere che da due assessori alla pubblica istruzione passeremo a nulla ?

Strade (si fa per dire) del territorio comunale di Contessa Entellina

A chi nel maggio 2008 ha sostenuto che in caso di elezione ai vertici del Comune avrebbe avuto come obiettivo prioritario, assoluto, il turismo, consigliamo un giro con un buon "jppone" per le strade che percorrono il territorio comunale. Buon viaggio !
Il Contessioto

Provinciali
-SP 12 Campofiorito-Contessa Entellina-Bivio Piangipane
-SP 35 S. Maria del Bosco-Chiappetta-Costiere-SP 12
-SP 98 Contessa Entellina-Carrubba-Bivio Cavallaro
-SP 90 dalla SP 35 Bivio Chiappetta-Castagnola-Adragna
-SP 44 Bivio Ponte Alvano-Pomo di Vegna-Roccamena

Strade ex Consortili
EC 29 SP 98 Mazzaporro-Bivio Piangipane
EC 30 dalla SP 45b-bivio vacca rizzo-Roccella
EC 32 dalla EC 37 Pizzillo alla EC 62
EC 37 dalla SP 12 –Bivio Quattro case-Pizzillo-Petraro-Diga Garcia
EC 50 dalla EC 62 Guglino-Mole alla SP 12
EC 51 SP 98 Carrubba Nuova-Miccina
EC 62 dalla SP 44-Realbate-Mole-Garretta

Strade Comunali
Bivio Serra-Bufalo-SP 35
Cozzo Finocchio-Serra
dalla SP 12 Piano Cavaliere-SP 98 Vaccarizzotto
Strada Bagnitelle: dalla SP 12 Cozzo Finocchio (Bivio D’Agostino)-Bagnitelle alla SP 12
Case Carrubba Nuova alla SP 12
Strada Passo di Merco-dalla SP 98-Quattro case alla EC 62

mercoledì 28 ottobre 2009

A Contessa Entellina la passione per la vita civica nel passato era diffusa fra la gente

Nel 1904 si svolsero a Contessa Entellina le elezioni amministrative ed i risultati verranno contestate alla Giunta Provinciale Amministrativa (*). C'era stata una accesissima campagna elettorale in cui competevano due liste, quella dei Bianchi e quella dei Neri, formazioni entrambe di ispirazione liberale (il movimento dei Fasci siciliani, di ispirazione socialista, era stato represso alcuni anni prima). In realtà le dizioni formali dei due schieramenti erano "Comitato Elettorale del  ..." e "Comitato Elettorale del  ...".
Va smentita, almeno nella sua asserzione letterale, che le liste fossero in quel periodo espressione delle parrocchie locali. C'era certamente la predominanza arbreshe, ma questa si ritrovava in entrambi gli schieramenti. Un papas lo ritroviamo nella lista dei Neri ed altri papas sono invece sostenitori dei Bianchi. Sarà proprio il papas, candidato dei Neri, a promuovere, facendo sottoscrivere gli atti a propri parenti, il ricorso che finirà a Palermo.
Egli sarà oggetto di filastrocche e poesie più o meno ironiche per la posizione amministrativa assunta contro la vittoria dei Bianchi.
Abbiamo avuto occasione, in altri post (cfr. 17-09-2009), per rappresentare come un secolo fà, mancando televisione, internet ed altri apparecchi che oggi impegnano il nostro tempo, le serate invernali trascorrevano in mezzo a vasti assembramenti 'patriarcali' dove ciascuno coltivava la vena poetica misurandosi con i fatti della vita paesana quotidiana. La poesia non era riservata ai letterati ma coinvolgeva tutti. Il guaio di allora era che le opere poetiche venivano tramandate oralmente, nessuno pensava di conservare per iscritto i testi. Nessuno prevedeva che sarebbe arrivata un'epoca come la nostra dove tutti ci scordiamo i luoghi dove posiamo le chiavi dell'automobile.

Per tornare alle elezioni amministrative del 1904 possiamo dire che gli interessi in gioco, per quella tornata, erano ben altri che i confronti di campanile; c'era di mezzo il controllo di alcune famiglie sulle leve municipali. Lotta fra famiglie, quindi, non lotta di campanili.
Il Contessioto conta di poter diffondere la storia di quel 1904 mediante un libretto da pubblicare nei prossimi mesi; intanto riporta qui l'estrapolazione di due strofe da una lunga filastrocca (fortunatamente trascritta da qualcuno).
Il Contessioto

(*) I risultati elettorali verranno ancora contestati al Tar e poi al Cga nella tornata del 1977.

Nè della mano d'un sacerdote
tema la santa benedizione
l'ilare faccia tua, che puote
grave di colpi nembo sfidar.
   Poscia di gloria tutto raggiante
   torna alle cure tue trascurate,
   onde ti dian la croce per tante
   benemerenze dell'istruzion.

martedì 27 ottobre 2009

TARSU 2008 - Appena notificate le cartelle la Camera del Lavoro proporrà ai contribuenti di presentare ricorso alla Comm.ne Tributaria

 La Camera del Lavoro, supportata dalla Federconsumatori, proporrà ai contribuenti di proporre ricorso contro le cartelle Tarsu 2008 che, si ritiene, dovrebbero essere notificate ai contribuenti tra la fine di quest'anno e l'inizio dell'anno prossimo.
   Le ragioni sono state in più occasioni esposte, sia nel corso di due Assemble Cittadine e che con la diffusione di volantini  fra la cittadinanza.
   Contessa Entellina con la tariffa 2008, fissata su due paginette a firma del sindaco di allora, nella graduatoria dei comuni d'Italia si è posto fra quelli col più alto tasso di aumento + 160%.

   Camera del Lavoro e Federconsumatori stanno inoltre valutando la determinazione del sindaco in carica, dott. Sergio Parrino, la n. 8 del 2-4-2009 con cui viene fissata la tariffa 2009, appena lievemente inferiore a quella 2008. Anche questa tariffa risulta viziata, alla luce della recente sentenza del Tar Sicilia, di incompetenza essendo stata adottata dal sindaco invece che dal Consiglio Comunale.

   Nel corso di una prossima ASSEMBLEA CITTADINA che dovrebbe tenersi entro la prima quindicina di Novembre sarà illustrata, alla cittadinanza ed ai contribuenti,  la posizione della Camera del Lavoro e della Federconsumatori.
Il Contessioto

Una strada ex-consorzio bonifica viene finalmente sottoposta ad opere di manutenzione. Ma i lavori dureranno un anno.

Sul Giornale di Sicilia di oggi c'è una piccola notizia. La vogliamo segnalare. Come tutti sappiano negli anni trenta del secolo scorso furono realizzate alcune strade di penetrazione nei grandi latifondi. Furono denominate "consortili" perchè tutti i coltivatori, in possesso di grandi o piccoli appezzamenti di terreno, pagavano annualmente un contributo finalizzato a bonificare la campagna. Ebbene quelle strade dopo 80 anni non hanno mai saputo cosa sia la manutenzione. Molte di esse sono franate o sono state letteralmente inghiottite dal tempo. La strada di cui il Giornale di Sicilia, oggi, dà notizia è una di quelle. E' una strada che dal lago Garcia va in direzione della fondovalle Palermo-Sciacca e attraversa, prima di raggiungerla, con un lungo ponte il Belice Destro.
Le strade che prima erano consortili oggi sono gestite dalla Provincia, un ente che a Contessa è sconosciuto ai più perchè mai nulla ha fatto per le zone interne, se non mandare nei periodi di festa (8 settembre) dei complessi musicali di basso livello artistico o avviare opere manutentive sulla Contessa Entellina-Santa Margherita Belice, con l'intento, desumibile dai risultati, di peggiorarne le condizioni di sicurezza per la viabilità. Un ente, la Provincia, noto solo per lo sciupio di fondi pubblici. Sciupio che ovviamente è un buon concime per le clierntele elettorali.
Il Contessioto

P.s.- La foto mostra il Belice Destro in questi giorni di piogge abbondanti.


GIORNALE DI SICILIA

27 Ottobre 2009

Viabilità. Strada consortile della diga Garcia: parte la riparazione

Si apre il cantiere della Provincia sulla strada ex consortile 55 nel territorio della diga Garcia, tra i comuni di Roccamena, Monreale e Contessa Entellina. Un’arteria di collegamento con la “veloce” Palermo-Sciacca e i centri Poggioreale e Salaparuta. L’impresa aggiudicataria dell’appalto è la Scaviter di Santa Venerina, che dovrà completare l’intervento entro un anno con una spesa di 960 mila euro.

lunedì 26 ottobre 2009

Il dopo-terremoto di Francesco Di Martino non riguardò solamente la ricostruzione materiale delle case. Nel 1969 nasce la ProLoco

Nicola Graffagnini, insegnante che vive a Palermo, ci ha fatto pervenire due foto di vita relazionale contessiota che si riferiscono all'anno 1969. Nicola, che sinceramente ringraziamo, ci fa sapere che ad appena un anno dal terremoto che si era abbattuto pesantemente sulla Valle del Belice il 14 gennaio 1968, l'allora sindaco di Contessa Entellina, Francesco Di Martino, aveva dispiegato ogni energia in ogni direzionde per far ripartire la vita comunitaria e, fra le tante iniziative, sollecitò i giovani a costituire la Pro Loco. Il primo impegno della neonata Pro Loco, di cui Nicola, è stato uno dei cofondatori, è stato quello di organizzare, in quell'anno, le "classiche Funzioni" secondo il testo dell'Orioles.
Le due preziose foto riportate all'interno di questo post testimoniano la premiazione da parte del primo cittadino -Francesco Di Martino- all'attore più anziano di quella edizione delle "Funzioni", il sig. Giuseppe Tardo, che aveva svolto il ruolo di 'Pietro'. Apprendiamo da Nicola che il sig. Tardo successivamente verrà pure premiato dalla Rai, che in quell'anno ha curato le riprese dell'opera dell'Orioles, secondo l'interpretazione che ne è stata data, tradizionalmente, a Contessa Entellina.
La seconda foto mostra il sindaco Francesco Di Martino durante la premiazione del co-regista, il sig. Vincenzo Rosselli, che allora nella vita pubblica esercitava il ruolo di collocatore comunale. Nicola ci fa inoltre sapere che in quell'anno il regista ufficiale è stato il sig. Filippo Guarino, ragioniere comunale.

Il Contessioto ringrazia, ancora una volta, Nicola Graffagnini, memoria storica dell'ultimo cinquantennio, e ovviamente lo invita a persistere nell'operra di collaborazione col nostro progetto, che come ognuno può cogliere non consiste nello scrivere post fini a se stessi, ma a ricostruire una identità comunitaria minacciata dalla cosiddetta globalizzazione e dall'indifferenza di tanti, anche di coloro che istituzionalmente avrebbero ben altre responsabilità in relazione al ruolo ricoperto.

L'invito a collaborare non è ovviamente indirizzato semplicemente e solamente a Nicola, da cui oltre alle foto attendiamo testi scritti. E' rivolto a chiunque vuole sostenere il nostro disegno.

Il Contessioto

Le stupidità della classe politica pagate col denaro pubblico

Il primo tronco ferroviario che in Sicilia venne aperto all'esercizio fu quello da Palermo a Bagheria, lungo 13 chilometri, che cominciò a funzionare nel 1863.
La rete siciliana fu fra quelle che presentò maggiori difficoltà di costruzione, perchè si dispiegava in terreni montuosi e comunque molto accidentati e, per lunghi tratti, instabili.
Nel 1902 il Parlamento del Regno d'Italia vara la costruzione del tronco a scartamento ridotto di rete ferroviaria che da Corleone, per km. 40, arriverà a San Carlo. La società concessionaria sarà la 'Società Siciliana per le Ferrovie Economiche ed i paesi interessati saranno Contessa Entellina, Bisacquino, Chiusa Sclafani e San Carlo.
Il percorso di questo tronco ferroviario oggi è, in gran parte, una pista ciclabile che (cose del mondo!, o come si dice in siciliano "cosi di l'autru munnu") giusto nel tratto della ex stazione di Contessa Entellina si inoltra nel bel mezzo di una discarica (o meglio di un impianto per il trattamento dei rifiuti organici). Si tratta di uno dei bei paradossi : ecologismlo, ossia pista ciclabile, e inquinamento ambientale (cattivi odori provenienti dall'impianto), che solo la pseudo classe politica italiana sa donarci.
Il Contessioto

domenica 25 ottobre 2009

Ma il Pd avrà una identità ?

   Anche a Contessa gli elettori del Pd hanno potuto votare per scegliere il prossimo segretario nazionale fra i tre candidati: Franceschini, Bersani e Marino. Con altra scheda era possibile scegliere il segretario regionale.
Il Contessioto

sabato 24 ottobre 2009

Chi governa è migliore o peggiore dei governati ?

La nostra classe dirigente esprime la società sottostante, cioè rispecchia la gente che la elegge ovvero è un mondo a sè ?
La foto che riportiamo qui accanto è stata pubblicata qualche giorno fà da un quotiiano, "Il Fatto-quotidiano" e si riferisce ai giorni del disastro di Giampilieri (Messina), ove sono morti decine di persone per l'imprevidenza degli amministratori locali e regionali, responsabili del dissesto idrogeologico di ogni angolo dell'Isola. Il presidente Lombardo, in mezzo alle macerie non ha trovato di meglio che ridere -"scaccaniarsi" come dicono i siciliani-. Il dissesto e la morte di decine di siciliani per lui sono stati un fatto divertente ?.
Il presidente Lombardo ha dichiarato che la foto era un fotomontaggio, mentre il quotidiano ha pubblicato altre foto analoghe, dove il presidente se la ride, ed ha preannunciato querela per l'accusa di fotomontaggio.
Seguiremo la vicenda, ed in attesa di capire se si tratta di fotomontaggio o di cruda realtà a noi la vicenda ci sta sollecitando a proporre un sondaggio fra i lettori. chi governa ci somiglia o appartiene ad un mondo a sè ?
Vedremo di organizzarci.
Il Contessioto.

venerdì 23 ottobre 2009

Lunedì seduta consiliare

   Nella serata di lunedì 26 ottobre 2009 è convocato il Consiglio Comunale per trattare -in particolare- una mozione (prima firmataria Anna Fucarino con Giuseppe Tamburello e Nicola Cuccia) con cui si impegna l'Amministrazione Comunale ad adoperarsi perchè i famigerati decreti Gelmini sulla scuola non si ripercuotano negativamente sull'Istituto Comprensivo Scolastico di Contessa Entellina. Il timore infatti è che il paese, già penalizzato dai vari governi che non hanno mai contrastato il fenomeno migratorio, possa vedere soppressa l'autonomia scolastica dei cicli qui esistenti per l'insufficenza standard degli iscritti prescritti come nei decreti.
   La mozione per salvare l'autonomia della scuola locale, che potrebbe essere congiunta ad un istituto dei paesi limitrofi, fa appello alla realtà di minoranza etnica della comunità contessiota. Circostanza questa che dovrà vedere l'Amministrazione attivarsi al livello amministrativo e legislativo regionale.
   Il Consiglio Comunale affronterà anche un dibattito sulla crisi dell'agricoltura -non solo locale ma dell'intera Sicilia-. Verranno richieste ai livelli superiori di governo adeguate misure di sostegno.

   Secondo voci non verificate, il Sindaco potrebbe comunicare al Consiglio un micro rimpasto della sua giunta.

  Il Contessioto

In principio era Abramo (Parte terza)-Ebraismo (3)

  Questo filone di scritti sulle religioni è diretta conseguenza dello sbalordimento a cui le persone sensate di Contessa Entellina (ma non solo di lì) sono state sottoposte quest'estate, quando un prete cattolico il cui mandato si ritiene debba essere di cercare le pecore smarrite, si è permesso di chiudere per 15 giorni, di fronte ad un gruppo di fedeli di rito bizantino, il portone della SUA chiesa.
Volevamo capire, allo luce di quell'azione, qual'è il cuore del Cristianesimo, ma gli amici che ci aiutano con la loro competenza su queste problematiche religiose ci hanno consigliato di dedicare prioritariamente un pò di attenzione a tutte le religioni monoteiste nate nel bacino del Mediterraneo (Islam, Ebraismo e Cristianesimo) per scoprire che l'ospitalità ovunque è sacra.
   Il Contessioto

EBRAISMO (1)
Il termine ebreo (ha ivrì) compare per la prima volta accanto a quello di Abramo (Gen. cap. 14, 13) cioè "l’uomo che attraversò" il fiume Eufrate, ma potrebbe anche significare "l’uomo che stava dall’altra parte" in quanto fu il primo e il solo monoteista rispetto agli altri idolatri. Altri fanno riferimento all’antenato di Abramo Eber (Gen 11, 14-17).


Con Abramo (circa 1600 anni avanti l’era volgare) ha inizio la storia dell’ebraismo. (Si badi bene, non sarebbe ancora storicamente corretto usare indifferentemente il termine ebreo, giudeo o israelita).

Le sue vicende, di Abramo, sono note: ha per primo l’intuizione dell’esistenza di un Dio creatore di tutte le cose, e per Suo ordine lascia Ur, la sua città in Mesopotamia e si mette in cammino per una terra ignota. Poi l’Eterno gli appare di nuovo e gli dice: "Io sono Iddio onnipotente, procedi innanzi a me e sii integro. Io farò un patto con te, ti farò moltiplicare grandissimamente e ti renderò padre di numerose genti, ti darò la terra di Canaan in possesso perpetuo. E tu osserverai il mio patto, tu e la tua discendenza. Di generazione in generazione come segno del patto ogni maschio tra voi sarà circonciso. Anche questo sarà in perpetuo (Gen. 17, 1-12)". È il primo precetto dato ad Abramo.

Abramo e Sara, sterile e ormai vecchia, dopo l’annunciazione degli angeli, generarono Isacco. (Il sacrificio di Isacco rappresenta l’obbedienza a Dio, e la mancata esecuzionedimostra il rifiuto da parte degli ebrei dei sacrifici umani così diffusi tra gli altri popoli. Da notare come Abramo accetta il terribile ordine e risponde "eccomi" in segno di accettazione della volontà divina poiché "il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia fatta la Sua volontà" tuttavia per la salvezza del prossimo, rappresentato dagli abitanti di Sodoma e Gomorra si batterà cercando addirittura di mercanteggiare con Dio).

Isacco e Rebecca generarono Esaù e Giacobbe che fu chiamato anche Israele, "l’uomo che lottò con Dio" (Gen. 32, 29).

Giacobbe sposò Lea e Rachele ed ebbero dodici figli, i capostipiti delle 12 tribù d’Israele (in realtà solo dieci tribù discendono dai figli mentre le altre due dai nipoti Efraim e Manasse figli del figlio Giuseppe ).

Al tempo della carestia che aveva colpito Canaan, Giuseppe, che era diventato viceré d’Egitto, chiama presso di sé la sua famiglia. Dopo la morte di Giuseppe i faraoni che seguirono ridussero in schiavitù gli ebrei che resteranno in terra straniera per 400 anni fino a ché non giungerà Mosè a liberarli.
La storia di Mosè (in egiziano = figlio) narrata nel secondo libro della Torà, l’Esodo, è a tutti nota nello svolgimento dei fatti, ma è densa di significati nascosti.
Mosè riceve da Dio i Dieci Comandamenti: la rivelazione, che avviene con voce di tuono, è un evento uditivo, cui Mosè risponde "faremo e ascolteremo" (Esodo 19, 3-6). L’azione quindi precede lo studio, così, come in quel momento può scorgere solo le spalle di Dio e non il volto, anche l’uomo può cogliere solo le conseguenze di un disegno divino che tuttavia resta al momento misterioso, nascosto. Per questo è necessaria la fede (emunà) intesa dall’ebraismo non con il significato di "credere" (sarebbe inconcepibile anche solo dubitare), ma nel senso di fidarsi o confidare.

I Comandamenti infine furono dati nel deserto, in terra di nessuno e di tutti, perché fosse chiaro che non erano destinati ai soli ebrei, ma che da questi fossero insegnati a tutte le genti ("Tu mi sarai un popolo di sacerdoti").

È necessario inoltre tener presente che i Comandamenti furono dati oltre 3.300 anni fà e tuttavia costituiscono ancor oggi la base del vivere civile.

Questi, così come furono dettati a Mosè (Esodo 20, 1-17; Deut. 5, 6-21), differiscono in alcune parti da quelli adottati successivamente dal Cristianesimo.

1. Io sono l’Eterno, Iddio tuo, che ti ha tratto dal paese d’Egitto, dalla casa di servitù. Non avere altri dei al mio cospetto.

2. Non ti fare scultura alcuna né immagine alcuna delle cose che sono lassù nei cieli o quaggiù nella terra o nelle acque; non ti prostrare dinanzi a loro perché io, l’Eterno, sono l’Iddio tuo.

3. Non usare il nome dell’Eterno, che è Iddio tuo, in vano; perché l’Eterno non terrà per innocente chi avrà usato il suo nome in vano.

4. Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni, ma il settimo è giorno di riposo, sacro all’Eterno, che è l’Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né tua moglie, né i tuoi figli, né il tuo servo, né la tua serva, né il forestiero che è nella tua casa, né il tuo bestiame, poiché in sei giorni l’Eterno fece i cieli, la terra e il mare e tutto ciò che è in essi e si riposò il settimo giorno: perciò l’Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l’ha santificato.

5. Onora tuo padre e tua madre, affinché i tuoi giorni siano prolungati sulla terra che l’Eterno, l’Iddio tuo, ti dà.

6. Non uccidere.

7. Non commettere adulterio.

8. Non rubare.

9. Non attestare il falso contro il tuo prossimo.

10. Non desiderare la casa del tuo prossimo, non concupire la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo asino, né cosa alcuna che sia del tuo prossimo.

Oltre che a questi Comandamenti l’ebreo è tenuto all’osservanza di 613 precetti (mitzvòth) di cui 248 azioni da compiere e 365 divieti, da questi numeri è facile dedurre che ogni parte del corpo umano e ogni giorno dell’anno devono essere dedicati a Dio.

Questi precetti regolano la vita quotidiana, le feste e tutto l’arco della vita e i rapporti con il prossimo. La raccolta scritta degli antichi insegnamenti orali è la Mishnà, un ampio trattato che va dalle norme agricole a quelle sulla purità, dalle feste al risarcimento dei danni. (il famoso detto "occhio per occhio", da molti interpretato come vendetta, rappresenta in realtà un profondo senso di giustizia, raro oltre tremila anni fa: ad un danno cioé deve corrispondere un risarcimento (in denaro) pari all’entità del danno procurato)

Altro testo fondamentale è Il Talmùd (uno di Gerusalemme e uno babilonese), oltre che commento alla Bibbia esso contiene discussioni e insegnamenti dei Maestri sui singoli trattati della Mishnà, narrazione di midrashim, parabole che hanno un profondo significato morale, oltre ad insegnamenti di varie materie quali medicina,scienze storia e matematica.

Purtroppo decine di carri carichi di questi preziosi volumi,molti manoscritti e a centinaia le preziose stampe dei Soncino, stampatori anche in Pesaro e per sette anni a Fano, andarono distrutti nei vari roghi un po’ in tutta Europa. In Italia l’uso dei roghi dei Talmud venne ripreso da papa Giulio III nel 1553: a Firenze ne furono bruciati 14 carri in pochi giorni mentre a Roma i roghi arsero a lungo. Non ci fu città, grande o piccola, che non vide, nella piazza principale, bruciare testi religiosi ebraici.

CHI SONO GLI EBREI

Cercheremo di rispondere a questa prima domanda, e alle tante altre che su questo argomento si pongono, poiché, fra tutti i popoli civili viventi sulla terra, il popolo ebreo è il più noto e al tempo stesso il più sconosciuto.

Ancor oggi nelle pagine di storia dei testi scolastici troviamo scritto "Gli Ebrei erano...", ma l’uso del verbo al passato, esatto per altri popoli coevi quali i Fenici, gli Assiri, i Babilonesi.., non lo è per gli ebrei in quanto ancora "sono": e questo, è il mistero del popolo ebreo.

Più facile è rispondere alla domanda "chi è Ebreo ?": per l’Halakhà (la legislazione rabbinica) è ebreo chi nasce da madre ebrea o chi si converte all’ebraismo. Va detto a tale proposito che il tribunale rabbinico tende ad ostacolare le conversioni soprattutto perché il convertito sarebbe poi tenuto, come chi è nato ebreo, all’osservanza di numerosissimi precetti, sacrificio questo del tutto inutile dal momento che per l’ebraismo la salvezza non si raggiunge necessariamente essendo ebrei, ma piuttosto amando il prossimo che ama Dio (Salmo 15, 4) e seguendo i Suoi Comandamenti.

Ma chi sono dunque gli ebrei? Una religione? Una cultura? Un popolo? Una razza?.

Certo la vita quotidiana è scandita da pratiche religiose, ma anche chi, nel corso degli anni, si fosse allontanato da queste, resta ugualmente ebreo.

Certamente hanno dato origine ad una forte spinta culturale, il loro testo sacro la Bibbia è il libro più letto nel mondo, ma altre antiche civiltà scomparse non furono da meno.

In quanto ad essere un popolo è certamente restato idealmente unito dalla comune fede e dalle stesse pratiche ritualistiche, ma sparso, spesso in gruppi esigui, in ogni parte del mondo, ha sempre contribuito allo sviluppo sociale, artistico, culturale, economico e soprattutto scientifico della nazione in cui vive al pari di qualsiasi altro cittadino, ciascuno secondo le proprie possibilità e capacità.

Nello stesso stato di Israele poi, ricostituito solo nel 1948 dopo essere stato annientato dai romani nel 70 d.C., la popolazione israeliana è composta da cittadini di tutte le religioni, compresi musulmani e cristiani.

In quanto alla razza, premesso che all’interno della specie umana il concetto di razza è di difficile e controversa applicazione poiché non esistono criteri fisiologici, morfologici né psicologici in grado di dare solida base ad una suddivisione, gli ebrei presentano caratteristiche somatiche così diverse tra loro che è impossibile inquadrarli in qualche modo.

Esistono infatti ebrei Yemeniti dalla pelle scura, capelli appena ondulati e lineamenti sottili, avevano conservato tradizione e lingua ebraica nonché la certezza che un giorno sarebbero tornati dall’esilio "su ali di aquila". Ritennero pertanto avverata la profezia quando aerei israeliani giunsero a salvarli con l’operazione detta "Tappeto Magico".

Assolutamente neri di pelle anche se del tutto privi dei caratteri negroidi, sono i "falascià", ebrei etiopi, individuati nella seconda metà dell’ottocento, discendenti dal figlio nato dalla regina di Saba e re Salomone, vagavano scalzi e seminudi, ma avevano nella capanna-sinagoga il sefer-Torà (libro della Legge).

Con uno spettacolare intervento aereo denominato "operazione Salomone" fu completato il loro trasferimento in Israele iniziato con "l’operazione Moses".

Esistono gruppi ebraici dalla pelle gialla ed occhi a mandorla nella lontana Kaifeng in Cina ed anche in Giappone.

Nella stessa Europa, pur essendo di pelle bianca, hanno caratteristiche somatiche diverse: quelli cosiddetti sefarditi (originari della Spagna, in ebraico Sefarad), con la pelle bruno-dorata, occhi neri e capelli castani, fautori con gli arabi della famosa scuola dei traduttori (sec. XIII), inclini indifferentemente tanto agli studi di mistica ebraica quanto a quelli delle letteratura romantica.

Ben diversi gli ebrei aschenaziti (dall’ebraico Aschenazi, Germania), presenti in tutto l’Est d’Europa, dediti all’approfondimento degli studi biblici cui nessuno, modesto ciabattino o ricco mercante che fosse, si sarebbe mai sottratto per lunghe ore al termine di una giornata di lavoro. Hanno per lo più capelli rossi e occhi verdi, altri sono biondi con pelle chiarissima. Forse è abbastanza curioso il fatto che questi sono gli unici veri ariani in quanto discendenti in gran parte dai Khazari. (Il loro impero, potentissimo nel VI secolo dell’era volgare, si estendeva dalle steppe del Caucaso al basso Volga, ed era considerato la culla della più pura stirpe di Ario. Proprio questo popolo, verso la fine dell’ VIII secolo lascia il paganesimo per convertirsi, re Bulan in testa con tutta la sua corte, all’ebraismo ritenendosi discendente di una delle tribù disperse d’Israele). Paradossalmente i nazisti, ritenendosi una razza superiore, quella ariana appunto, sterminarono in massima parte proprio quegli ebrei che erano ormai gli ultimi veri discendenti di Ario.

In quanto agli ebrei presenti in Italia (oggi circa 35.000) essi sono per lo più di "rito italiano", cioé i più vicini al rito originario essendo qui giunti direttamente da Gerusalemme, la maggior parte ancor prima dell’era volgare e poi al seguito dei Romani. Infatti quando nel 70 Tito distrusse il sacro Tempio, portò a Roma 5.000 ebrei come schiavi, questi furono riscattati dalla comunità ebraica già presente nell’Urbe. Costoro non presentano alcuna caratteristica fisica comune.

Pertanto se proprio si vuole dare una risposta alla domanda Chi sono gli ebrei? potremmo dire che sono i discendenti di quelle famiglie patriarcali, incontrate nella Bibbia, che continuano a vivere secondo regole che lo stesso popolo ebreo si è dato derivandole direttamente dalla Torà (termine tradotto erroneamente con Legge, ma con il vero significato di insegnamento. Essa è composta dal Pentateuco cioè i primi cinque libri della Bibbia: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio)

Usi e riti ebraici nell’arco della vita

La Torà quindi ha dato le Leggi, (gli insegnamenti) anticamente tramandate oralmente, raccolte poi nel trattato della Mishnà (ripetizione) e nel Talmùd con l’aggiunta dei commenti di mistici illuminati e antichi Maestri (Rabbini).

Pur essendo l’ebraismo così rigido nei principi fondamentali codificati nei Dieci Comandamenti, è tuttavia in continuo fermento poiché segue l’evoluzione dei tempi.

I Maestri di oggi quindi discutono i grandi temi attuali (droga, aborto,trapianti, fecondazione artificiale, omosessualità...) alla luce della Torà. I loro pareri possono rappresentare una guida per i fedeli, fermo restando il principio, irrinunciabile per un ebreo, della libertà individuale.

Anche oggi, come in passato, vale il parere espresso dalla maggioranza: non c’è infatti un capo religioso cui venga riconosciuto un potere decisionale superiore.

L’osservanza dei precetti è sì un atto di sottomissione al comando divino, ma ha lo scopo di portare sacralità in tutti gli aspetti della vita, valorizzandola, senza annullarla, elevando anche la banalità del quotidiano per metterlo a contatto col sacro.

"Siate santi poiché sono santo Io, il Signore Dio vostro" e attraverso le mitzvòt il popolo ebraico tende a ciò distinguendosi dagli altri popoli, ma ognuno deve perseguire lo stesso scopo sia pure attraverso la propria cultura specifica.

Per raggiungere questo obiettivo, gli ebrei dovranno pertanto attenersi all’osservanza delle mitzvòt (precetti) ogni giorno della settimana, e il Sabato in particolare, e nei tempi stabiliti dal calendario, e nei momenti che segnano la vita di ciascuno dalla nascita alla morte.

La "circoncisione" (milà) rinnova ad ogni nascita di un bimbo ebreo maschio, il patto di Abramo che lega a Dio il popolo di Israele.

Questa deve essere effettuata l’ottavo giorno dopo la nascita: non è legata solo al patto con Dio ma ricorda anche che Dio creò il mondo in sei giorni, il settimo si riposò e l’ottavo ogni uomo riprende e "fa per Lui" per perfezionare con le sue opere (buone) l’opera di Dio.

Inoltre si impone al bambino il nome, precetto questo importante come emerge spesso dalla lettura del testo biblico.

Se la figlia è femmina si celebra "il dono della figlia" (Zèved ha-bat) dopo ottanta giorni con la sola imposizione del nome.

Il "riscatto del primogenito" (Pidjon ha-ben) avviene trenta giorni dopo la nascita: è il gesto simbolico del padre che consegna a un discendente dei Cohen (Sacerdoti) cinque monete, poi date in beneficenza. Infatti la nascita del primo figlio,maschio, può far nascere nel padre un senso di orgoglio, di potenza e potrebbe dimenticarsi che tutto gli viene da Dio. Tutte le primizie debbono essere offerte al Creatore.

I ragazzo giunto al compimento del tredicesimo anno di età diventa "figlio del precetto" (Bar mitzvà) cioè entra a far parte della comunità degli adulti ed è tenuto al rispetto delle mitzvot (precetti). Per le ragazze ciò avviene al dodicesimo anno e la cerimonia è detta Bat mitzvà cioè della figlia del precetto. È una specie di confermazione: corrisponde a quella che per i ragazzi cristiani è la Cresima.

La famiglia è al centro della vita comunitaria pertanto il matrimonio è un momento importante della vita, obbedisce al precetto"crescete e moltiplicatevi e popolate la terra", tuttavia la legge ebraica riconosce la possibilità di incorrere in un errore nella scelta del coniuge pertanto prevede il divorzio. (Di questo si parlerà più diffusamente nell’incontro sulla famiglia come pure dell’educazione dei figli).

La vecchiaia è, in seno alla comunità ebraica, una condizione di privilegio poiché i figli debbono assolvere il precetto di mantenere i genitori in uno stato di dignità e trattarli col massimo rispetto (Vedi il V° Comandamento). Numerosi passi del libro dei Proverbi sottolineano ciò. E se hanno discendenti è scritto "La corona dei vecchi sono i figli dei figli e la gloria dei figli, i padri" (Proverbi 17, 6).

Il lutto per la morte di uno dei genitori è il più grave e le regole da seguire sono particolarmente rigide. Il cadavere dopo il lavaggio viene avvolto in un lenzuolo di lino e deve essere sepolto nella terra in modo che il corpo torni rapidamente alla terra da cui proviene, sono pertanto vietate le riesumazioni. fedeli al detto "Ricorda, polvere sei e polvere ritornerai".

Le preghiere prescritte vanno recitate direttamente durante la sepoltura, (mai in sinagoga) e nella prima settimana di lutto, durante la quale ci si astiene da qualsiasi lavoro, non si esce di casa, ma si ricevono parenti e amici che insieme ricordano chi è appena mancato.

Nei trenta giorni che seguono si riprende il normale lavoro, ma astenendosi da feste e divertimenti. Tuttavia, per quanto il dolore per la perdita di una persona cara resti indelebile, è un precetto tornare ad una vita normale pur ricordando con le preghiere gli anniversari di anno in anno. Le visite al cimitero sono vietate nel giorno di Sabato o in qualunque altra festività essendo il luogo considerato impuro, quindi inadatto alla santità, dal momento che ormai l’anima ha abbandonato il corpo.

Tuttavia presso alcune comunità si usa mantenere inalterata la stanza e le cose del defunto per undici mesi ancora dopo la morte, recitando il qaddìsh (antica preghiera in aramaico con cui si santifica il nome di Dio), accendendo un cero ad ogni compimese, nella speranza di rendere meno doloroso il distacco dalle proprie cose. Ma forse questo è più un conforto per chi resta.

In Urbino l’attuale cimitero ebraico risale al 1874: è situato alle pendici del Monte degli Ebrei, in località Gadana, volto verso Gerusalemme.Vi sono numerose lapidi e cippi provenienti da quello antico ed alcune steli monumentali ottocentesche.

Il numero delle sepolture è senz’altro maggiore di quante ne indichino le iscrizioni tombali e ciò perché nell’epoca in cui Urbino è stata soggetta allo Stato Pontificio anche qui è stato applicato l’editto di papa Pio VI, che vietava di apporre lapidi nelle sepolture anche con il solo nome, in modo che dell’estinto si perdesse ogni traccia. Solo le sepolture di rabbini e sapienti erano esentate da questo decreto. A Roma questo decreto restò in vigore sino al 1848.

Quello più antico era situato poco lontano, ma, essendo il terreno franoso, fu abbandonato; risaliva alla fine del 1300.

Tutte le cerimonie, liete o tristi, che coinvolgono la famiglia, e pertanto private, debbono essere celebrate in seno alla Comunità e lo svolgimento del rito e la preghiera pubblica possono avvenire solo in presenza del miniàn (numero), cioè dieci maschi adulti.
Rav Alberto M. Somekh

(In un prossimo scritto vedremo in cosa consista la religione ebraica) 

giovedì 22 ottobre 2009

L'acqua di Garcia passa sul territorio di Contessa e finisce nell'agrigentino, da Sambuca. Non stupiamoci se la prima rotabile ha collegato Contessa col resto del mondo a fine '800

Nel 1520 nasce l'Università, ossia il Comune di Contessa Entellina. Questa realtà umana costituirà un mondo a sè; gli abitanti non hanno infatti contatti con le comunità vicine se non eccezionalmente. Giustizia, amministrazione, lavoro, religione, alimenti, vestiario ed infine, ma non per importanza, la lingua, tutto viene curato sul luogo ed è peculiare del luogo.

Mancavano, allora (e non solo allora), le strade e quelle che esistevano non erano altro che le millenarie trazzere risalenti al periodo dei greci di Sicilia (i Sicilioti) nel V secolo a.c.. In effetti nel 1500 il modo di viaggiare ed i mezzi di trasporto erano immutati da secoli, risalivano appunto all'epoca greco-romana quando non esistevano le strade rotabili e le bestie da soma rappresentavano, soprattutto nelle zone interne dell'Isola il mezzo essenziale di trasporto.

Le persone, le merci e le derrate alimentari si trasportavano sul basto degli animali da soma, asini e muli. Una fila di tre-otto animali, costituiva un'unità di base di carico, detta "redina", la quale veniva affidata ad un solo conduttore, il "burdunaro". Questo stato di fatto resterà immutato, in tutta la Sicilia, fino al 1779, quando per la prima volta dal governo borbonico viene avviato per le zone costiere un primo piano di viabilità: nascono finalmente le prime strade rotabili e finalmente i primi "carri" trainati da animali potranno essere usati come mezzi di trasporto fra un centro abitato ed un'altro. In tanti paesi d'Europa ciò avveniva da secoli.
La cosa, cioè l'avvio di quel primo piano viario, comunque non interesserà Contessa. Solamente sul finire '800 arriverà fin qui il primo collegamento con strada provinciale; e verrà costruito quello che ancora oggi, nel terzo millennio, chiamiamo " ponti i'rì ".
Il Contessioto

Ci auguriamo che chi ha orecchie per intendere abbia inteso. Essere amministratori comunali non può significare gestire l'ordinaria amministrazione; a questa è bastevole l'apparato burocratico.

mercoledì 21 ottobre 2009

Crisi dell'agricoltura siciliana - A giorni arriverà l'anticipo del 70% dell'aiuto unico comunitario

Nonostante lo scarso peso complessivo dell'agricoltura nell'economia della Sicilia, ancora oggi nel comparto lavorano 135.000 siciliani.

Nell'entroterra siciliano, per intenderci le zone entro cui ricade Contessa Entellina, l'agricoltura viene ancora praticata con mezzi e tecniche antiquate ed è rivolta principalmente alla coltivazione del grano: un'attività alquanto poco redditizia, ma che occupa vaste zone di arido territorio. Arido territorio perchè nel 2009 irrigare la terra, in Sicilia, per i governanti di Palazzo d'Orleans è roba dell'altro mondo. Le zone costiere invece sono molto più fertili, dotate di sistemi di irrigazione efficienti ed avanzati che permettono coltivazioni più moderne e redditizie. Queste aree dedite all'agrumicultura e all'orticultura intensiva, fra l'altro, provvedono all'approvigionamento delle aree urbane.
Le colture principali dell'agricoltura siciliana (quasi un terzo delle aree coltivate) sono quelle del grano e di altri cereali. Molto piu redditizie e remunerative per l'intera filiera interessata sono le coltivazioni di agrumi, olive, viti e alberi da frutto. Fortementi interessati al commercio con l'estero sono i famosi vini liquorosi della Sicilia come il Marsala, il passito di Pantelleria o il Malvasia delle Lipari. Le colture a più alto valore aggiunto restano comunque i legumi e gli ortaggi che, come già detto, vengono praticate principalmente nelle zone costiere ed in quelle orientali particolarmente. In Sicilia viene prodotto il 100% del cotone italiano.

Il vino in Sicilia
Il settore vitivinicolo ad oggi investe una superficie coltivata pari a 150.000 ettari e una produzione di 9 milioni di ettolitri. 400.000 persone sono direttamente o indirettamente dedite al comparto,  che ad oggi rappresenta la principale realtà dell'agricoltura e dell'agrindustria.

Iniziative dell'Assessorato Regionale agricoltura
Per alleviare il gravissimo stato di emergenza degli agricoltori, afflitti oltre che dalla carenza infrastrutturale -su cui ci siamo ripetutamente soffermati- anche dagli irrisori prezzi del grano e dell'uva nella corrente stagione, l'Assessorato Regionale sta predisponendo un piano di sviluppo legato in particolar modo alle esigenze delle varie aree territoriali (così viene scritto in un comunicato).

1)  Alla prima giunta di governo sarà dichiarata la crisi di mercato, e,  mediante le risorse Fas (fondi per le aree sottosviluppate) verrà deciso l'aumento a 50 milioni di euro del Fondo dei 15 milioni, assegnato alla Crias per finanziare 'la formazione di scorte' delle imprese agricole, a tasso agevolato”. A partire dal 16 novembre fino alla fine del mese, le imprese potranno presentare le richieste di finanziamento.
2) Entro il 20 di novembre sarà reso operativo l’articolo 17 della legge finanziaria, che assegna una dotazione iniziale di 4 milioni, per prestiti di conduzione concedibili dalle banche per 200 milioni di euro circa e una seconda dotazione di 6 milioni che consente prestiti quinquennali, fino a 100 milioni, per ristrutturazione debiti dei debiti delle aziende.

Come si vede si tratta di iniziative che interessano le poche medie-grandi imprese dell'Agricoltura. Siamo certi che nessuna realtà localizzata a Contessa riceverà benefici dalle due misure proposte dall'Assessorato. Segno più che evidente che la classe politica non conosce la struttura agricola dell'interno dell'isola.
Una iniziativa che inverce interessa i coltivatori dell'interno, e quindi quelli di Contessa Entellina, è che finalmente l'Agea (l'Azienda per le erogazioni comunitarie) quattro giorni fa ha messo in pagamento il 70% degli aiuti previsti dal premio Unico della Pac relativi all'annata 2008-2009.
3) In tema di Psr (Piano Sviluppo Rurale)-Sicilia, le imprese hanno chiesto alla Regione l'applicazione dei regolamenti comunitari di anticipo del 50% dei contributi.
4) Sul piano comunitario l'Assessore regionale all'Agricoltura ha fatto sapere alle organizzazioni di categoria dei coltivatori che, attraverso il ministero, è stata avanzata la revisione dell'Ocm vino, ossia la reintroduzione delle misure previste per lo stoccaggio dei vini e dei mosti e la riduzione dello zuccheraggio dal 3% al 2% nonchè l'aumento del dazio da 7 a 13-15 centesimi, per l'ingresso dei cereali extracomunitari, prodotti questi che hanno portato attualmente il prezzo del grano sotto i 20 centesimi a chilo.
Il Contessioto

Sacerdoti sposati anche se cattolici - Per gli arbreshe non c'è niente di strano

  A leggere i giornali di oggi, ha il sapore di una rivoluzione la "Costituzione Apostolica" che Santa Romana Chiesa si accinge a varare per accogliere nel suo seno nuclei di fedeli anglicani comprensivi dei chierici che "desiderano entrare nella piena comunione" con Roma. La 'Costituzione Apostolica' attualmente in elaborazione ammetterà, viene scritto, che i sacerdoti anglicani già sposati potranno continuare, da cattolici, ad esercitare il ministero all'interno delle loro comunità, nonostante la Chiesa Cattolica mantenga ferma la norma del celibato per chi fra i cattolici voglia diventare sacerdote. Sembrerebbe che all'interno di queste comunità che si accingono a diventare cattoliche, in prosieguo, verrà imposta la generale norma del celibato per i sacerdoti. In pratica la deroga varrà solo nella fase di transizione dall'anglicanesimo al cattolicesimo, anche se i riti liturgici in avvenire continueranno ad essere di stampo anglicano.
  Per noi contessioti non si tratta di una rivoluzione all'interno della Chiesa Cattolica bensì una posizione piuttosto minimalista rispetto a quanto la Chiesa Romana ha concesso agli arbreshe giunti cinque secoli fà in Italia meridionale. Allora, alle comunità arbreshe fu concesso di mantenere i preti che già arrivavano sposati dall'Albania e fu autorizzato, anche per il futuro, che all'interno delle comunità i 'papas' potessero, prima di assumere l'ordine, continuare a sposarsi. Come ancora oggi infatti avviene.
  La deroga valevole per gli arbreshe del meridione d'Italia in verità vige per tutte le chiese orientali unite a Roma (melchiti, ucraini etc.) ed è contemplata dall'attuale Codice delle Chiese Orientali.
  Quando sarà pubblicata la ricordata "Costituzione Apostolica" torneremo sull'argomento che per noi contessioti non suscita grande scalpore, cosa che invece in tutto l'Occidente latino è definita -a sentire telegiornali e a leggere la stampa- una 'piccola rivoluzione'.  Per restare alla locale realtà dell'Eparchia di Piana degli Albanesi, è dato rilevare che in tre dei quattro paesi in cui è conservato il rito bizantino i relativi parroci delle madrici sono tutti sposati: Papas Janni Pecoraro a Piana degli Albanesi, Papas Sepa Borzì a Palazzo Adriano e Papas Nicola Cuccia a Contessa Entellina.
  L'argomento da noi oggi affrontato è davvero di quelli che meritano un ampio approfondimento e pertanto ci torneremo.
Il Contessioto

martedì 20 ottobre 2009

9 ottobre 1998: Anton Blok cittadino onorario di Contessa Entellina

Undici anni fà, esattamente il 9 ottobre 1998, nell'Aula Consiliare del Comune è stata conferita la cittadinanza onoraria al prof. Anton Blok, docente di antropologia sociale e culturale all'università di Amsterdam. Il prof. Blok è l'autore del libro "La mafia in un villaggio siciliano 1860-1960" edito da Einaudi nel 1986.
L'antropologo olandese visse per un lungo periodo, negli anni sessanta, a Contessa Entellina ove osservò il microcosmo della comunità rurale dell'epoca. Ne studiò i comportamenti e la vita di relazione quotidiana, che in seguito riportò sul libro "La mafia di un villaggio siciliano 1860-1960", edito, come detto, in Italia da Einaudi.
Nel libro le vicende di Contessa Entellina vengono inquadrate nel più ampio contesto storico della Sicilia e del meridione d'Italia e trovano una loro spiegazione oltre i fatti contingenti.
Il Contessioto

lunedì 19 ottobre 2009

Alle origini del 'Comune' di Cuntissa (2).

Nell'Università di Cuntissa, come in tutte le altre realtà feudali dell'isola, erano i baroni che amministravano la giustizia. Il titolo di barone permetteva che fosse esercitata la giurisdizione locale in nome del sovrano. Ovviamente il barone si avvaleva di un apparato (la corte capitaniale) a capo del quale stava il Capitano (a Contessa doveva essere -secondo i capitoli sottoscritti fra i Cardona e gli arbreshe- del luogo). Costui doveva essere un giurisperito ed aveva competenza tanto "in civilibus" quanto "in criminalibus"; a lui incombeva anche la difesa dell'abitato dalle aggressioni esterne ed il mantenimento dell'ordine pubblico. In tutto e per tutto era tenuto a riferire e a rapportarsi col barone. Nel dettaglio i suoi compiti giudiziari e di polizia consistevano:
-ricevere le querele dalle parti lese,
-istruire i processi,
-emettere le sentenze
-curare l'esecuzione delle sentenze
-sull'intero stato baronale aveva competenza per la cattura dei delinquenti,
-poteva sottoporre a fermo eventuali testimoni,
-disporre la carcerazione e la possibile tortura.
Capitano e giudici erano coadiuvati dal maestro notaro (anche questa figura, secondo i capitoli feudali, doveva essere di Contessa), cui spettava innanzi tutto la redazione e la registrazione degli atti.
Il Contessioto

domenica 18 ottobre 2009

Alle origini del 'Comune' di Cuntissa (1).

Sui capitoli concessi dai Cardona agli albanesi di Contessa nel 1520 si legge, fra l'altro, " ... e che lo Capitanio e Giurati dello detto Casali digiano essere dello detto Casali e  digianosi mutari ogni anno per sua Illustrissima Signoria. ...".
Con la sottoscrizione dei capitoli Contessa diviene "Università", equivalente dell'odierno Comune. Diviene un comune feudale entro cui il diritto di scelta o di nomina degli ufficiali di giustizia (capitani) e degli amministratori locali (giurati) spettava al barone. Tale facoltà durerà dal 1520 al 1785. I giurati erano quattro e loro compito era di rappresentare il comune, gestire il patrimonio comune dell'Università", curare l'imposizione fiscale (l'annona), fissare i prezzi (mete) di alcuni generi, regolamentare il commercio, provvedere all'edilizia urbana e alla salute pubblica, svolgere mansioni di polizia locale, servendosi della collaborazione dei salariati 'maestri di piazza' o 'acatapani'.

Il Contessioto

venerdì 16 ottobre 2009

La banca del sud. L'ultima barzelletta per tenere la Sicilia nell'arretratezza.

Il Consiglio dei ministri ieri (15-10-2009) si è occupato del Sud. I ministri meridionali non hanno condiviso e non hanno apposto la loro firma sul pacchetto di iniziative proposto; Bossi ha invece benedetto le presunte iniziative. E’ facile immaginare che non c’è nulla per la crescita del Sud.
Tremonti, ministro dell’economia e nordico a 24 carati, ha partorito il solito topolino. Dopo mesi di promesse per il rilancio del sud arrivano iniziative di palese inconcludenza. I nostri giovani continueranno a studiare qui, a formarsi, e poi se vorranno partecipare ai frutti della modernità dovranno recarsi nel nord, o molto più probabilmente all’estero.
L’agricoltura da noi è ancora quella degli elimi e dei greci di Sicilia; la differenza sta solamente nell’immissione dei trattori e dei mezzi meccanici; per il resto, da noi, manca l’acqua per l’irrigazione, manca la viabilità, manca la qualificazione, manca la commercializzazione dei prodotti.
Abbiamo avuto una estate di finti strilli del governatore Lombardo e del compare Miccichè; Berlusconi, che li conosce per quelli che sono, ha fatto una estate di promettere investimenti per il sud. Le poche somme che sono state sbloccate erano destinate alla Sicilia da tempo e venivano solamente tenute bloccate nelle casse dell’erario. Quando sono arrivate in Sicilia abbiamo scoperto che non servivano per investimenti (cioè per allargare la base produttiva e creare nuove occasioni di lavoro) ma per essere sciupate.
E’ accaduto il disastro di Messina, provocato dal dissesto idrogeologico del territorio, ossia per l’abbondanza di cemento su terreni disboscati, e cosa ci viene adesso preannunciato ? Che il cemento, in quantità, senza fine, continuerà a servire per collegare con un ponte le città di Messina e di Reggio. Costerà miliardi di euro, ma non ha importanza; I soldi si recupereranno evitando di eseguire le strade della viabilità ordinaria, non curando la manutenzione delle ex strade consorziali (quelle numerose del territorio di Contessa Entellina) realizzate negli anni ’30 del Novecento e oggi letteralmente scomparse per le frane e l’incuria. Nessuno metterà mano alle strade provinciali del nostro territorio che, per arretratezza e rischi alla circolazione non hanno di eguali in nessun paese d’Europa; franano e restano in attesa di finanziamenti che, quando arrivano, si esauriscono ancora prima di completare le opere (l’intervento sulla strada per Santa Margherita Belice è costata un bel po’ di soldi, ma oggi essa è più pericolosa di prima). Non parliamo delle strade vicinali o comunali. Nessuna di essa, da quando è stata realizzata, ha avuto a che fare con la prescritta manutenzione; mi riferisco al collegamento Piano Cavaliere-Vaccarizzotto, alla strada Serra-Castello Calatamauro, alla strada Cozzo Finocchio-Bufalo (Su quest’ultima sono stati dirottati, dall’attuale Amministrazione, i soldi che servivano al completamento della palestra scolastica. Da oltre un anno non abbiamo riscontro né del completamento della palestra né del rifacimento del fondo stradale).
Stiamocene contenti ! Berlusconi ci farà il ponte sullo stretto; non ha nessuna importanza se per i Siciliani sarà una vera impresa raggiungere Messina da qualsiasi angolo dell’isola. Avremo altri dissesti sul territorio ? non ha importanza, prima o dopo una sanatoria ci farà diventare proprietari delle sconcezze costruite sul ciglio delle spiagge.
Il messaggio che arriva da questi governanti è che dobbiamo essere tutti goderecci, nessuno sia pensieroso sull’oggi e sul domani. Berlusconi insegna.
Non c’è solo il ponte. Tremonti creerà una Banca per il Sud. Lo farà con una legge, non con un piano aziendale che abbia ravvisato le necessità del mercato.
Sulla carta siamo governati da “liberisti” però, questi uomini di governo, per il Sud invece di realizzare investimenti sulle infrastrutture che ci servono, creano “con legge” nuovi carrozzoni. La Banca del Sud opererà mediante le Poste e piccole banche cooperative. Raccoglierà i risparmi ed i relativi interessi verranno tassati al 5% (invece che con l’ordinaria aliquota del 12,5%). Questo risparmio drenato nel meridione dovrebbe servire a finanziare le piccole imprese. Fino a qui non si capisce dove sta il beneficio. Finora, da 150 anni, i risparmi del sud sono sempre serviti a finanziare la grande industria del nord. Continuerà ad essere così perché i soldi vanno dove ci sono soldi e mai nessuna legge ha bloccato i flussi finanziari. Non serve scrivere sulla gazzetta ufficiale che la Banca del Sud devolverà la raccolta alle piccole e medie imprese meridionali. Queste per svilupparsi hanno bisogno di un contesto infrastrutturale entro cui potersi muovere in regime di competitività. Nessuna impresa potrà mai svilupparsi dove mancano acqua, viabilità, servizi etc.
Nel Sud, in buona sostanza, si devono creare prima le infrastrutture e dopo sarà conveniente investire.
Che il nuovo carrozzone non serve al Sud lo attesta la soddisfazione di Bossi che, in Consiglio dei Ministri, ha votato a favore della “bufala” di Tremonti, mentre alcuni ministri meridionali si sono astenuti.
Non c’è dubbio che Lombardo e Miccichè continueranno a far finta di lamentarsi. E non c’è dubbio che Berlusconi continuerà ha tenerli buoni con le belle lusinghe (che dovranno venire).
   Nessuno è contro la realizzazione del ponte sullo stretto. Nello stato, come nelle famiglie, si dovrebbero fissare le priorità.
Mimmo Clesi

giovedì 15 ottobre 2009

Gli arbreshe giunti in Sicilia trovarono l'arbitraria legge baronale. Ma in Albania col crollo di Costantinopoli nasce il Kanun

La tradizione giuridica dell’Albania costituisce un patrimonio interessante e originale, tuttavia poco esplorato, poco conosciuto e completamente sacrificato dalla logica del regime dittatoriale che ha segnato la vita dell’Albania nella seconda metà del Novecento[1].
L’insieme delle leggi consuetudinarie è comunemente noto come Kanun, termine che sembra derivare dal greco κανών. Il Kanun era l’antico codice consuetudinario che per secoli ha governato la vita degli albanesi, costituiva la loro tradizione orale, osservata fino ai primi del secolo, quando sono entrati in vigore i codici penale e civile. Si ritiene che i principi contenuti in questo codice consuetudinario abbiano regolato anche la vita di quegli albanesi emigrati in Italia tra il XV e il XVIII secolo, entrando a far parte del loro patrimonio culturale, anche se gli albanesi emigrati dovettero adeguarsi ai sistemi giuridici feudali dell’Italia meridionale.
Il Kanun rappresenta la consuetudine che è stata acquisita dal popolo albanese come norma, da ciò consegue la scelta di trattare il Kanun non come “legge” ma come “raccolta di tradizioni”. La sua diffusione su tutto il territorio dimostra che esso è portatore di valori generali, perciò pur essendo “raccolta di tradizioni” va considerato come “codice consuetudinario”. L’applicazione del Kanun non è più in vigore in Albania; ci sono vendette di sangue secondo il rituale in esso contenuto che sembrano scontri e violenze dovute ad una transazione troppo rapida e poco organizzata, durante la quale lo stato albanese si sta dotando di raffinati strumenti normativi, ma non si è ancora dotato di strumenti adeguati a far rispettare le leggi che promulga. Questo stato di confusione fa ritenere che le norme kanunarie siano ancora in funzione, ma non è così, esse conservano oggi un valore puramente ermeneutico documentario[2].
Dal punto di vista delle regole che disciplinano la convivenza sociale contestualmente al comportamento personale, il Kanun costituisce un’importante testimonianza e un patrimonio normativo, che contiene un’originale concezione giuridica, sociale e morale. Il Kanun è l’insieme dei principi, delle istituzioni, delle norme tradizionali, che gli albanesi hanno costruito con tenacia e intelligenza nel corso del tempo per dare al popolo una legge stabile, che rispondesse alle caratteristiche morali e tradizionali ed alle necessità storiche di esistenza. Ciò ha consentito di sviluppare un senso sociale e un sistema giuridico indipendente dal diritto imposto dai dominatori, sopravvivendo alla lunga dominazione Ottomana. Il fatto stesso della sopravvivenza giuridica di questo codice, che certamente non può essere accettato nella sua interezza, in ogni sua previsione, costituisce la riaffermazione dell’alto valore che queste regole hanno avuto per il popolo albanese. Il Kanun è una sorta di codice delle comunità albanesi, distribuite su un territorio più vasto di quello dell’attuale Albania, e abitato dai vari fis cioè dalle grandi famiglie gentilizie unite a formare grandi comunità legate dal vincolo della solidarietà. In quanto tale era soggetto, nell’applicazione concreta a forme diverse di attuazione, che tuttavia non potevano contrastare con i principi giuridici generali e fondamentali.
La tradizione popolare ha individuato una serie di legislatori o codificatori locali, sottolineando l’importanza e la consistenza delle leggi particolari, per cui esistono vari Kanun albanesi, ma quello di Lek Dukagjini costituisce il complesso di norme più importante e soprattutto più diffuso. La tradizione ritiene che una prima opera di codificazione fosse stata realizzata dal principe Alessandro Dukagjini, detto Lek, intorno alla metà del 1400, epoca durante la quale egli visse[3]. Alcuni sostengono che a questa paternità sia riconducibile il nome stesso del Kanun. Lek fu personaggio storico, morto probabilmente nel 1479, ma lo si può considerare soprattutto come un semieroe della tradizione albanese. Talvolta ostile, talaltra amico di Scanderbeg, partecipò alla rinascita del sentimento nazionale albanese e fu parte attiva nella lotta del suo popolo contro i turchi, fino a diventare simbolo di fierezza, ma anche grande legislatore. L’epopea fiorita su quell’epoca leggendaria della storia albanese, riferisce che Lek fu persino scomunicato da Paolo II nel 1464, a causa di questo codice che porta il suo nome, in quanto sembrava allora che questo fosse poco ispirato alla fede cristiana, mentre paradossalmente ancora oggi il Kanun è conosciuto e rispettato in Albania per essere “la parola di Dio”. Il Kanun è stata la legge, il modo di vivere del popolo albanese e la sua tradizione giuridica. La raccolta attribuita a Dukagjini è quindi tradizione orale e perciò soggetta ad alterazioni, diventa codice quando venne trascritta da Stefano Costantino Gjecov, padre della provincia francescana di Scutari, a partire dal 1912, pubblicando parti della raccolta, fino a che, dopo la sua morte, i padri della provincia francescana d’Albania ebbero la possibilità di riunire i suoi appunti e pubblicare nel 1933 l’opera postuma, nella integrità nella quale noi la conosciamo. Gjecov deve essere considerato come il vero legislatore della tradizione giuridica delle montagne d’Albania. Almeno altri tre Kanun però esistono sicuramente e tramandati nel tempo. Nella memoria orale degli abitanti della regione di Puka è rimasto un Kanun, detto appunto di Puka; nel Mat e nel Mirdite, a nord di Tirana, si ricorda il Kanun di Skanderbeu. L’esistenza di un Kanun di Scanderbeg era già stata affermata sia da Villari che da Padre Valentini, quest’ultimo può essere considerato il più autorevole ricercatore nel campo delle consuetudini giuridiche albanesi. Un Kanun esiste anche nella regione Laberia, a sud di Valona e al confine con la Grecia, ma sicuramente ne esistono altri.
Il testo attribuito a Gjecov è diviso in libri, i libri in articoli e commi. Ciò gli conferisce l’aspetto di un vero e proprio codice. In realtà, una inspiegabile divisione per capi interferisce con articoli e commi, norme di natura penalistica intersecano quelle di natura civilistica, a volte, alcune norme sono in contrasto fra loro, mentre articoli relativi ad argomenti pertinenti fra loro, sono separati e collocati insieme ad altri articoli secondo una logica che sembra essere dettata più dalla prassi. I libri di cui è composto sono 12, dedicati ai più svariati argomenti della vita pubblica e privata. Riguardano la Chiesa, la Famiglia, il Matrimonio, la Casa il Bestiame e i Poderi, il Lavoro, Prestazioni Donazioni, la Parola, l’Onore, i Danni, i Delitti infamanti, il Codice giudiziario, Privilegi ed Esenzioni. La garanzia di questo complesso di diritti-doveri fondamentali era assicurata dall’esercizio delle virtù come il coraggio (trimnija), la saggezza (urtija), la costanza (burrnija). Nel Kanun di Lek Dukagjini sono descritti atteggiamenti positivi come l’esaltazione di quelle azioni che esprimono coraggio, l’elevazione a rango di fede della parola data (besa), il rispetto per l’ospite, ma contiene anche atteggiamenti negativi, per esempio costringe a contrapporsi violentemente, a farsi giustizia da sé, ad offendere chi arreca l’offesa, a rivalersi sugli altri e a mettere in pratica le minacce. E’ questo lo spirito della vendetta, per cui il concetto di onore impresso nel Kanun assume una duplice funzione: da una parte si presenta come norma sociale generale su cui è iscritta la società, dall’altra si presenta come precetto individuale, imponendo la violenza. Un esempio sono le norme che si riferiscono all’ospitalità, infatti per il Kanun l’ospite era tanto sacro, che se qualcuno chiedeva l’ospitalità bisognava accordargliela, perché “la casa dell’albanese è di Dio e dell’ospite”, anche se quest’ultimo fosse stato l’assassino del proprio figlio; è per questo, che la donna poteva essere uccisa dal marito se tradiva l’ospite. Secondo la legge dell’ospitalità, chi ospitava doveva proteggere la vita e i beni di tutti quelli che si trovavano sotto il suo tetto. Se qualcuno veniva ucciso mentre era ospite in una casa, il capofamiglia di quella casa doveva vendicarlo, e se qualcuno commetteva delle infrazioni mentre era ospite, era colui che lo ospitava ad essere responsabile. Sembra che il codice dell’ospitalità vada piuttosto iscritto in una dimensione di reciprocità, la cui mancanza metterebbe in crisi l’intero sistema organizzativo. Dare ospitalità e protezione ad uno sconosciuto rappresentava la garanzia di essere ospitati e protetti, per cui inospitalità rappresentava un disonore e metteva in pericolo la coesione sociale.
La fusione delle regole positive e negative, descrivono un certo tipo di uomo che si caratterizza come “uomo d’onore” già noto nel mediterraneo; e l’uomo albanese è un uomo d’onore, per il quale, la pena per la violazione della norma sta non tanto nel tipo di pene previste nel Kanun, quanto nella riprovazione da parte della collettività, che si manifesta con la perdita dell’onore, “di fronte alla legge il disonorato è considerato persona morta”, ciò perché “l’onore è considerato patrimonio personale, né alcuno con vie giudiziarie può impedire il risarcimento dell’onore. L’onore sulla fronte c’è stato posto dal sommo Iddio”. Il valoroso si fa giustizia da sé, senza far appello alla giustizia. Strettamente legato all’istituto dell’onore era quello della vendetta, per cui nella tradizione giuridica albanese esisteva l’istituto giuridico secondo cui ogni uccisione doveva essere risarcita con altro sangue. Il capofamiglia o l’assemblea dei parenti maschi, affidava a un membro della famiglia il compito di vendicare l’onore. Questi, visto che nella vendetta non c’era nulla di cui vergognarsi, lo avrebbe fatto in pubblico, uccidendo, anche a distanza di anni, un maschio della famiglia che aveva versato sangue del suo sangue. Quando l’onore era stato vendicato uccidendo il colpevole, l’uccisore doveva partecipare al funerale dell’ucciso e al banchetto funebre. Dopo di che ci sarebbe stata una tregua di 24 ore, durante la quale, la famiglia dell’omicida ottenuta la tregua, avrebbe dovuto comportarsi con molta prudenza, astenendosi dal recar qualsiasi noia o disturbo alla famiglia dell’ucciso, e non mostrandosi orgogliosa o superba. A porre fine alla vendetta era la riconciliazione ad opera di intermediari, che discutevano con le due famiglie fino a trovare un accordo, sancito da libagioni, brindisi e patti di fratellanza.
La violazione di una norma si rivela per essere, non tanto un reato, quanto un’infamia, un disonore, che impone la legge della vendetta. Il Kanun ammette il ricorso al giuramento liberatorio, art.88, per cui non si ha luogo al processo, mentre nell’art.7, relativo alla natura della pena inflitta a chi abbia commesso una colpa, è esplicato il carattere retributivo e non vendicativo della pena, intesa come “male inflitto da un’autorità legittimamente costituita”. L’ambiguità contenuta nel Kanun è dipesa dal fatto che esso è costituito da norme che si sono adattate nel tempo ed hanno aderito alle necessità imposte dalle circostanze. L’ambiguità più forte deriva dal fatto che in esso sono contemplati due modelli di risoluzione dei conflitti fra loro contrapposti, la vendetta, che implica il sacrificio della comunità, e la violenza legittima, amministrata dai giudici e basata sulla norma, collocandosi perciò a metà fra la società basata sul sacrificio e l’amministrazione della giustizia centralizzata nello Stato.
Nel Kanun non esiste un principio di sostanziale eguaglianza, basti pensare alla posizione della donna, che secondo la legge non aveva personalità giuridica, perciò il Kanun descrive un tipo di società basata sull’organizzazione ineguale del potere, rappresentativo ma piramidale e soprattutto basata su un patriarcalismo di ceto che la colloca al di fuori della tradizione giuridica formale di tipo romanistica, che si basa sull’eguaglianza dei soggetti di fronte alla legge.

Un aspetto del tutto peculiare trattato nel Kanun è il rapporto tra Stato e Chiesa[4], dei quali si riconoscevano la legittimità delle competenze e dei poteri di sovranità, non configgenti con lo stesso Kanun. La Chiesa era sottoposta all’autorità del Capo della Religione e non alle leggi del codice[5]. Il codice da un lato non poteva imporre alcun obbligo alla Chiesa, dall’altro doveva difenderla, qundo essa chiedeva il suo aiuto. La Chiesa non poteva punire con pene temporali, per cui a chi oltraggiava la Chiesa, la multa era inflitta dalla parrocchia. In particolare per quel che riguardava la Chiesa e le sue leggi, il Kanun consentiva di riconoscere in linea di principio, l’esistenza di peculiari esigenze della coscienza religiosa, tipiche del cristianesimo, che non contrastavano con la tradizione, e ciò consentì di procedere ad una evangelizzazione, orientata all’assunzione di valori e principi morali del Kanun. Si poté realizzare una sorta di unione disciplinare tra leggi canoniche e Kanun, con special riguardo a quegli istituti, come il matrimonio, dove ciò poteva essere possibile. Quanto ad altri istituti, come ad esempio la vendetta, essi risultavano molto radicati nella coscienza popolare, in quanto assunti come atti identificativi dell’esistenza albanese, per cui molte furono le difficoltà incontrate nella eliminazione di comportamenti contrastanti con la legge cristiana.

2.2 Esperienza giuridica romana.


Il diritto romano, a causa del suo sviluppo nei secoli, non si presenta in un assetto unico, ma può essere suddiviso in quattro periodi: periodo arcaico, VIII-IV sec. a.C., caratterizzato dalla civitas quiritaria; periodo preclassico, IV sec. a.C. I sec. d.C., caratterizzato dalla repubblica nazionale; periodo classico, I- III sec. d.C., caratterizzato dalla fase della repubblica universale o dal Principatus; periodo postclassico, IV-VI sec. D.C., caratterizzato dall’Imperium assolutistico.
L’esperienza giuridica romana conosceva la dicotomia del diritto privato e pubblico[6], che risaliva ad Ulpiano, giurista vissuto tra il II e il III secolo d.C.; Ulpiano ci fornisce una celebre distinzione tra ius privatum e ius publicum, contenuta nelle sue Istituziones, e riprodotta sia nelle Istituziones di Giustiniano, che fece compilare per la gioventù interessata al diritto, cupida legum iuventus, sia nei Digesta seu Pandectae, “Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: quaedam publice utilia, quaedam privatim. Publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit. Privatum ius tripertitum est: collectum etenim est ex naturalibus praeceptis aut gentium aut civilibus" . Secondo la definizione ulpianea, lo ius publicum riguardava l’assetto del populus Romanus Quiritium, nella sua organizzazione costituzionale e nel suo funzionamento legislativo, giurisprudenziale e amministrativo (quod ad statum rei Romanae spectat), lo ius privatum, riguardava il singolo individuo e la tutela dei suoi interessi.
Lo ius privatum di Ulpiano e della giurisprudenza coeva e successiva[7] altro non era che il complesso delle istituzioni giuridiche formatesi intorno alla civitas quiritaria. Soggetto dello ius privatum era il paterfamilias, con tutta la sua sfera di interessi personali ed economici cioè il patrimonium. Per cui i giuristi romani indicarono come fonti dello ius privatum tutti quei sistemi normativi quali: i Mores Maiorum dello ius Quiritum, le leges dello ius legitimum vetus e in particolare le XII tavole, l'interpretatio prudentium, lo ius legitimum novum, gli edicta dei magistrati giusdicenti, i senatus-consulta, le costitutiones principium dello ius novum, e le inveterata consuetudo.
Lo ius publicum ulpianeo quindi si differenziava dallo ius privatum, perché aveva come soggetto il populus Romanus Quiritum, in tutta la sua struttura costituzionale ed amministrativo, ed anche nelle ipotesi di difesa di interessi tipicamente privati. Bisogna dire però che la giurisprudenza romana, ponendo poca attenzione a queste materie, ha fatto si che appaiano poche individuate rispetto a quelle dello ius privatum. I rapporti tra ius privatum e ius publicum invece furono caratterizzati dalla prevalenza del secondo sul primo, per l'ovvio motivo che l'interesse della collettività doveva essere al di sopra di tutto. Per cui i privati non potevano interferire nei regolamenti pubblicistici per modificarli o abrogarli, cioè lo ius publicum non poteva essere modificato dagli accordi dei privati (ius publicum privatorum pactis mutari non potest). Viceversa lo ius publicum, espresso nei provvedimenti normativi o ordinativi quali: leges publicae, edicta e decreta magistatuum, costitutiones principium, poteva interferire nei regolamenti privatistici. Altra distinzione fu formulata da Gaio nelle sue Institutiones, egli partiva dal presupposto che il diritto era proprio dei soli esseri umani, e distingueva due tipi di normative giuridiche: quelle proprie e caratteristiche di ogni singolo populus, costituenti lo ius civile di ciascuno di essi; quelle dettate a tutti i popoli civili, costituenti lo ius gentium, che ogni singolo poteva liberamente derogare, ma che in mancanza di speciali ragioni di deroga, doveva trovare diretta applicazione presso tutti i popoli. Gaio denominò talvolta lo ius gentium come ius naturale, senza differenziare tra loro i due concetti ergo ex his, quae diximus, adparet, quaedam naturali iure alienari, qualia santea, quae traditione alienatur, quaedam civili, nam mancipationis et in iure cessionis et usucapionis ius proprium est civium romanorum. Nec tamen ea tantum, quae traditione nostra fiunt, naturalis nobis ratione ad quiruntur, sed etiam rell.
A partire dal secolo II d.C., per ius privatum civile fu inteso l'insieme dei principi privatistici che caratterizzavano il solo ordinamento giuridico romano, applicabile ai soli cives Romani, ma eccezionalmente poteva essere applicato anche ai peregrini, e quindi sottoposto al regime proprio dello ius gentium. Il nucleo essenziale dello ius civile in senso sistematico fu lo ius civile vetus, di cui ne facevano parte anche i praecepta dello ius honorarium o dello ius novum. Lo ius privatum, nel suo assetto classico, comprendeva la distinzione tra rapporti assoluti e rapporti relativi. I rapporti assoluti si distinguevano in rapporti in senso proprio e in senso improprio. I primi comprendevano i rapporti familiari, parafamiliari e dominicali. I rapporti assoluti familiari assicuravano al pater familias l'autorità della patria potestas sui filii ed ulteriori discendenti da unioni matrimoniali; la potestas sui liberi in mancipio, cioè su alcune persone libere, ma prive di legame di parentela con lui, ed assoggettate per altre ragioni; la manus maritalis sulle donne provenienti da altre famiglie, che erano entrate come sottoposte nella famiglia del padre. I rapporti parafamiliari erano connessi al mancipium quiritario, ma in età classica avevano solo una parvenza di rapporti potestativi, oggetto ne erano gli individui sui iuris cioè soggetti giuridici a pieno titolo, ma per ragioni di età o di altre minorazioni varie, erano considerati incapaci di agire e sottoposti ad un tutor (degli impuberi o delle donne) o ad un curator (dei pazzi, degli scialacquatori del patrimonio familiare). I rapporti dominicali riguardavano l'utilizzazione e l'impiego da parte del soggetto giuridico (pater familias o mulier sui iuris) dei beni economici. I rapporti assoluti in senso improprio erano costituiti da un certo numero di iura in re aliena cioè diritti assoluti attribuiti a un soggetto giuridico su una res di cui fosse dominus un altro soggetto, e si dividevano in rapporti reali di godimento e rapporti reali di garanzia. I primi assicuravano al soggetto attivo il godimento di alcune delle facoltà giuridiche comprese nel domnium, sottraendole alla disponibilità del dominus, ed erano: le servitù prediali, che comportavano il diritto del dominus di un fondo di utilizzare il fondo di un dominus vicino; usufrutto, che comportava il diritto di un soggetto di utilizzare temporaneamente una res fruttifera in proprietà di un altro soggetto, allo scopo di utilizzarla e trarne dei frutti; superficie, che comportava il diritto di un soggetto di utilizzare un suolo altrui per costruirvi un edificio proprio; enfiteusi, che comportava il diritto di un soggetto di utilizzare a lungo termine un fondo altrui per coltivarlo e migliorarlo, con l'obbligo di pagare un canone al concedente. I rapporti reali di garanzia assicuravano al soggetto attivo la possibilità di rivalersi, del mancato adempimento di un'obbligazione, direttamente su una res del debitore o di un garante, vendendola a terzi e soddisfacendosi sul ricavato, ed erano: il pignus datum, per cui il creditore otteneva sin dall'inizio il possesso materiale della cosa pignorata; l'hypotheca, per cui la res rimaneva nella disponibilità materiale del concedente ( debitore o terzo garante) vincolata però alle conseguenze dell'inadempimento.
I rapporti relativi invece erano di debito o di responsabilità. I rapporti di debito consistevano sempre in comportamenti di dare, facere o non facere, cui il soggetto passivo (obligatus, debitor) era tenuto nei confronti del soggetto attivo (creditor), perciò furono denominate obbligazioni che si differenziavano in: obbligationes contractae, che erano costituite da un negozio formulato da uno o due soggetti, che poteva essere orale, scritto, o poteva consistere nella dazione di una cosa; obbligationes ex contractae, che erano costituite da un contratto a carattere puramente formale; obbligationes non contractae, che derivavano da atti giuridici leciti ma che non erano considerate tipiche. I rapporti relativi di responsabilità erano distinti in: rapporti di responsabilità primaria, detti anche obbligationes ex delicto, che derivavano da un atto illecito lesivo della libertà di un privato o di un diritto assoluto; rapporti di responsabilità secondaria derivavano dall'inadempimento ingiustificato di un rapporto relativo, cioè di un obbligatio.
Anche tra le fonti del diritto romano può essere annoverata la consuetudine, ma questo solo con i giuristi dell'età Adrianea a cominciare da Giuliano. La parificazione delle consuetudines ai Mores Maiorum, purché conformi alle leggi vigenti, si profilò vagamente nella scuola postclassica, mentre in età classica la formazione di consuetudini posteriori ai Mores Maiorum, fu ostacolata prima dall'intervento delle Leges Publicae, poi dagli editti giurisprudenziali dei magistrati e dalle costituzioni dei principi, che dovevano disciplinare quelle situazioni sociali largamente diffuse, che non ancora avevano avuto il tempo di trasformarsi, attraverso la pratica, in consuetudini automaticamente vincolanti. In età postclassica per diritto scritto si intesero tutte le fonti giuridiche documentarie: Leges publicae, Plebiscita, Senatusconsulta, Edicta magistratuum, Costitutiones principium e gli stessi Responsa prudentium classici. Per diritto non scritto si intese quello derivante dalle consuetudini di antica data. Il diritto consuetudinario aveva però un limite, non poteva essere in contrasto con i principi dell'antico ius e con le leges imperiali, cioè non poteva modificare né iura né leges facenti parte dello ius scripto.

2.3 L'istituto della famiglia, del matrimonio, dell'eredità, secondo il Kanun e la tradizione giuridica romana.

La famiglia albanese secondo il Kanun si basava sulla famiglia allargata, la grande famiglia patriarcale, cioè era inserita attraverso una rete di obblighi reciproci, in una struttura di parentela allargata detta fis, termine che poteva equivalere alla gens romana. Il fis era composto solo da parenti paterni, mentre i parenti acquisiti per via materna, seppur riconosciuti come affini non ne facevano parte.
L'art.9 recita testualmente[8]: "La famiglia si compone delle persone di casa; più famiglie unite formano una fratellanza, più fratellanze una stirpe, più stirpi un fis, più fis una Bandiera e tutte insieme avendo una stessa origine, formano quella grande famiglia che si chiama Nazione". Nell'idea degli albanesi la catena del sangue e dei gradi di parentela si promulgava all'infinito. I gradi della discendenza del sangue provenivano dal padre, quelli dell'affinità dalla madre. I primi erano detti albero del sangue (consanguineità), i secondi albero del latte (affinità). All'interno del fis non era ammesso il matrimonio, ma si trasmettevano status e proprietà. Secondo il codice il governo della casa spettava al più anziano, oppure al primo dei fratelli, o se costoro non avessero avuto le qualità giuste per ricoprire tale ufficio, di comune accordo, veniva scelto un altro componente della famiglia. La struttura della famiglia albanese era fortemente autoritaria, perché solo il padrone di casa aveva l'autorità suprema di disporre dei guadagni dei membri della famiglia, di comprare, vendere e far cambio di terreni, di punire quando non ci si comportava come richiedeva il bene della famiglia, e di far rispettare le norme della giustizia. Il codice infatti, considerava irregolari le vendite, gli acquisti, le garanzie o qualsiasi altro contratto fatto da un membro della famiglia che non aveva chiesto il permesso al padrone di casa. Esistevano anche diritti e doveri riconosciuti agli altri membri della famiglia, come la padrona di casa che aveva il diritto di disporre di tutto ciò che era di produzione casalinga, e posta gerarchicamente al di sopra delle altre donne, si occupava dell'educazione dei figli di tutte le altre con l'obbligo di non fare alcuna distinzione, ma nello stesso tempo era sottomessa al padrone di casa e agli altri uomini. Gli altri membri della famiglia avevano il diritto di deporre il capo famiglia, se non agiva nell'interesse della famiglia stessa, o la padrona di casa, se sottraeva la roba per venderla di nascosto. Al disotto di tutti, in questa scala gerarchica, erano posti i domestici, che erano pienamente sottoposti all'autorità del padrone di casa. L'intera famiglia aveva anche dei diritti nei confronti del villaggio. Partecipava alla suddivisione delle multe applicate dal villaggio, usufruiva dei possessi comuni (pascoli, acqua, legna), mentre i doveri della famiglia verso il villaggio consistevano, nell'assunzione da parte del capo famiglia della responsabilità dei danni causati dagli altri componenti della sua famiglia, nel partecipare ai convegni del villaggio e a tutte le altre funzioni. Quindi all'interno del fis solo il capo famiglia era il rappresentante giuridico di tutta la famiglia estesa. Secondo il Kanun, gli individui che facevano parte della famiglia non avevano personalità giuridica, civile e sociale se non attraverso il capofamiglia che poteva quasi equivalere al pater familias dei romani. Questo sistema prescriveva una stretta esogamia, non soltanto per gli individui che avevano legami reali di parentela, ma anche per quelli uniti da fratellanza di sangue, cioè l'affratellarsi, che si creava col "succhiare" il sangue a vicenda, impedendo così il matrimonio tra gli affratellati, le loro famiglie e i loro parenti. Secondo il kanun, gli uomini e le donne avevano sfere sociali diverse[9], mentre gli uomini pur sottomessi all'autorità del capo famiglia, avevano propri diritti e curavano il rapporto con l'esterno, le donne erano qualcosa di superfluo in famiglia, non avevano diritto all'eredità dai loro parenti né sulla casa né sugli altri possedimenti. La donna, finché si trovava in casa del marito, era considerata come un piccolo otre, che sopportava pesi e fatiche. Non aveva diritti sociali, passava dalle mani del padre a quelle del marito che la comprava e che quindi aveva tutti i diritti su di lei, anche quello di ripudiarla, tagliandole un fiocco di lana dalla cintura o la treccia. Per il Kanun, il matrimonio[10] voleva dire formare famiglia, aggiungendo alla famiglia una persona, che oltre ad accrescere le braccia per il lavoro, moltiplicava la prole. Era considerato illegittimo il matrimonio in prova o per ratto e il concubinaggio, mentre gli impedimenti al matrimonio erano che la donna non doveva essere dello stesso sangue e parentela dello sposo o della stessa stirpe o se vi era una parentela spirituale, che poteva nascere in conseguenza di un battesimo o dall'essere compari di capelli, infatti quest'ultima parentela era paragonata allo sposalizio, perché come la sposa si recava presso i suoi parenti nei giorni fissati dalla legge, così nei suddetti giorni la comare si recava in casa del compare. Il matrimonio era preceduto dal fidanzamento, considerato in tutti i sensi un pre-matrimonio, e addirittura più importante di quest'ultimo. I rapporti tra le due famiglie, in cui si sarebbe svolto il fidanzamento e poi il matrimonio, erano presi dai mediatori, che avevano il compito di prendere accordi e di far avere il denaro ai parenti della futura sposa. L'arra del fidanzamento consisteva in un anello di rame o d'argento e in una somma di denaro, che legavano la sorte della ragazza in modo che i parenti di costei, se fossero venuti meno alla parola data, incorrevano nella vendetta del sangue da parte della famiglia dello sposo. Il fidanzamento poteva essere rotto sia dall'uomo che dalla donna, però, mentre l'uomo perdeva solo il diritto di riavere l'arra e le monete, la donna non aveva il diritto di licenziare il fidanzato, e se ciò avveniva con il consenso dei suoi parenti, non poteva sposarsi finché restava in vita il fidanzato, e rimaneva vincolata anche nel caso in cui il fidanzato si fosse sposato con un'altra donna. Se la donna rifiutava di sposare il fidanzato, i parenti di lei la consegnavano con la forza insieme ad una cartuccia. Se poi la ragazza tentava di fuggire, lo sposo poteva ucciderla usando quella cartuccia, e il sangue restava invendicato, perché la ragazza era stata uccisa con la cartuccia dei suoi parenti. Le nozze, poi, si celebravano attraverso il corteo dei paraninfi che avevano il compito di portare la sposa nella casa dello sposo. Il Kanun disciplina, nel libro dedicato al matrimonio, le leggi che riguardavano lo sposo, la morte dello sposo prima del matrimonio, che comportava la restituzione, da parte della famiglia della sposa, della metà del prezzo versato dalla famiglia dello sposo, mentre se la morte avveniva dopo tre anni dal matrimonio, i parenti della sposa non dovevano nulla ai parenti dello sposo. In caso di morte della sposa, se avveniva dopo tre anni dal matrimonio senza lasciare alcun figlio alla casa del marito, i parenti di lei avevano il diritto di riprendere le sue vesti e i valori d'argento, lasciando ai parenti del marito la cassa a chiave con un paio di vestiti. Se la sposa moriva lasciando un figlio, i suoi parenti avevano diritto alle collane in argento, tutto il resto rimaneva alla famiglia del marito. Il codice disciplina anche il divorzio cioè il licenziamento, che poteva avvenire in caso di adulterio o per tradimento dell'ospite, per queste due colpe, il marito poteva anche uccidere la moglie senza incorrere nella vendetta del sangue, mentre in caso di colpe meno gravi, la moglie era semplicemente licenziata dal marito senza usarle violenza. La divorziata nell'uscire di casa, nulla poteva prendere con sé, ad eccezione delle vesti che portava indosso, nel caso che aveva un bambino da allattare, il marito, sebbene l'avesse separata dal letto matrimoniale, aveva il dovere di trovarle un alloggio nelle vicinanze della casa per poter allattare il bambino, inoltre aveva il dovere di corrisponderle il vitto e il vestiario.
Nella tradizione giuridica romana, come in quella albanese, fondamento della famiglia era il pater familias che esercitava la sua auctoritas su tutti i sottoposti. Inizialmente, nel periodo arcaico, i gruppi familiari-gentilizi che avevano stretto della intese fra loro (foedera) erano abituati a considerarsi delle formazioni autonome[11] impersonate dal capo, il pater, il cui potere su uomini e beni del gruppo appariva all'esterno pieno e assoluto (mancipium); in base agli accordi ciascun nucleo (gens o familia) conservava però la propria autonomia ed era rappresentato dal proprio pater. Successivamente, dal mancipium quiritario del periodo arcaico si passò nel periodo classico, a quelle quattro situazioni attive della patria potestas, della potestas sui liberi in mancipio, della manus maritalis, e dell'auctoritas maritalis. Nella famiglia romana, come in quella albanese, si può notare quella struttura piramidale con al vertice il pater familias, infatti il potere (potestas) era esercitato dal pater familias, maschio, capo del gruppo familiare sulle persone che erano a lui legate da discendenza agnatizia (filii familias). Il pater familias, fra tutti i suoi poteri, aveva anche quello di disporre della vita dei propri figli (ius vitae ac necis) che consisteva nella possibilità di uccidere, se lo riteneva opportuno e necessario, i suoi figli[12]. Dato l'aspetto deplorevole del comportamento, in età classica, la giurisprudenza ritenne che il figlio non poteva essere ucciso se il padre non avesse ascoltato le sue motivazioni, e a chi comunque uccideva i propri figli, fu stabilita la pena della deportazione e della confisca dei beni. Solo in periodo postclassico, per l'influenza della religione cattolica, lo ius vitae ac necis, venne dapprima limitato e poi abolito.
Nella potestas del pater familias rientravano altri diritti, come lo ius vendendi, cioè il diritto di alienare il sottoposto mediante mancipatio ad un altro pater familias, il quale lo acquistava come liber in causa mancipii. L'acquirente poteva a sua volta vendere il sottoposto a terzi oppure poteva affrancarlo mediante manumissio, e in questo caso il figlio tornava sotto la patria potestà del genitore originario. Per limitare questa compravendita fu stabilito, dalle XII Tavole, che quando un figlio fosse stato alienato dal padre per tre volte consecutive, diventava sui iuris, non più sottoposto all'autorità del padre. Ancora il pater, esercitava sul figlio non emacipatus, che non era sui iuris, lo ius exponendi cioè il diritto di disconoscimento o di abbandono, lo ius noxae dandi cioè il diritto di consegnarlo a titolo liberatorio agli offesi, nel caso avesse commesso illeciti anche di ordine soltanto privatistici (delicta). Nella vita pubblica[13]invece, il figlio maschio era protagonista al pari del padre, e se ricopriva una magistratura il padre, che all'interno della famiglia poteva infliggergli qualsiasi umiliazione, gli doveva rispetto in pubblico. La patria potestas si estingueva non solo quando il figlio diventava sui iuris o con la morte del padre o con l'adoptio, ma anche nel caso in cui fosse diventato Flamen Dialis (sacerdote) o la figlia fosse diventata Virgo Vestalis (sacerdotessa). Nella famiglia albanese, invece, il potere e l'autorità del padre sui figli e gli altri componenti, non si estingueva, ma era considerato duraturo.
Legato sempre alla posizione pubblicistica del filius, era l'isituto del peculium castrense: il figlio aveva il potere di disporre dei proventi della militia armata, pur essendo privo di capacità giuridica e quindi d'agire, poteva donarlo mortis causa o disporne testamentariamente, cioè aveva su quel peculio maggiori poteri che su quello eventualmente concesso dal padre.
Per quanto riguardava la posizione della donna[14], era considerata soggetto giuridico limitato, mentre nei rapporti interfamiliari, godeva di grande autorità e prestigio. Nei rapporti giuridici familiari, non era considerata né proprietaria, né creditrice, né debitrice. Anche la donna albanese, essendo considerata priva di personalità giuridica, non ricopriva cariche e non aveva diritti sull'eredità, ma era pienamente sottomessa al potere del capo famiglia. La donna romana, quando non era sottoposta alla patria potestas del padre, era sotto il potere del marito, o sotto il potere spettante a un parente prossimo, o ad un gentiles, o se libertina era sotto il potere del padrone. La donna veniva considerata affetta da imbecillitas, infermitas, cioè da debolezza e instabilità di intelligenza, per cui, per il compimento di atti giuridici era necessaria la presenza del tutor mulieris , che riconosceva autorità all'atto, senza assumersi alcuna responsabilità. Fungeva da tutor o colui che esercitava il potere assorbente sulla donna, o era nominato dal marito, o nominato da un magistrato, su richiesta della donna. Questa incapacità della donna, di muoversi nel mondo del diritto, scomparve verso la fine del III sec. d.C. e gli inizi del IV sec. d.C., ma già da tempo la presenza del tutor era diventata apparente, per cui la donna si dava fittiziamente in moglie ad un vecchietto, il quale la emancipava ad un amico della stessa, che a sua volta la manometteva rendendola di nuovo sui iuris, fungendo lui stesso quale manumissor, da tutor. Il matrimonio anche per i Romani era rigorosamente monogamico, esogamico cioè che i coniugi non dovevano provenire dalla stessa famiglia agnatizia, ed era caratterizzato dal connubio, che derivava dalla concezione antica che il matrimonio era possibile solo tra persone appartenenti alla stessa comunità culturale. Nel periodo arcaico, affinché i figli della donna convivente potessero essere assunti nella potestas del suo uomo, occorreva che la donna si sottoponesse alla manus dell'uomo, che si realizzava con la coemptio che era una forma di acquisto, o con l'usus della donna per un anno continuato, successivamente si parlò anche della conferratio, che era il rito religioso che comportava sempre l'acquisto della manus sulla uxor. Queste forme di unione furono dette matrimonium cum manu. Nel periodo preclassico, per evitare che la donna perdesse i suoi diritti patrimoniali nella sua famiglia, si evitò la coemptio e la conferratio, e si aggirò la regola dell'usus allontanando ogni anno la donna per tre notti dalla casa coniugale. Questo fu detto matrimonium sine manu. Il matrimonio senza potere sulla donna si concretava in un negozio giuridico, i cui elementi erano la volontà coniugale (consensus), la forma, che era caratterizzata dall'ingresso della donna nella casa del marito, la causa, che era la costituzione di una nuova unità domestica. Con il venir meno del consensus si aveva il divorzio, che si manifestava con una dichiarazione scritta di ripudio, di solito proveniente dal marito. Unione paramatrimoniale era il concubinato, cioè la convivenza tra due persone, priva del carattere del matrimonium, che la legge De Adulteriis, riordinando tutta la materia dei rapporti extra matrimoniali qualificò come crimina. Anche per i Romani, il matrimonio era preceduto dal fidanzamento (sponsalia), che era una promessa di matrimonio, da cui in qualunque momento era lecito recedere. Erano nulli nel diritto romano classico, i patti che obbligavano i fidanzati a compiere le nozze o che stabilivano una pena in caso di scioglimento degli sponsali, e anche negli antichissimi tempi, quando l'istituto rivestiva una maggiore importanza, il fidanzamento era formato solo attraverso una semplice sponsio e non con la dazione di un oggetto o del prezzo della sposa[15]. Contrariamente al matrimonio e al fidanzamento albanese dove la donna veniva materialmente acquistata dal marito pagando dieci piastre, manca nel matrimonio romano, secondo Volterra, qualsiasi accenno ad una compera della moglie, e che la coemptio è solo una forma di acquisto della manus, che può aver luogo anche indipendentemente dal matrimonio.

L'esperienza giuridica albanese, conosceva anche l'istituto dell'eredità[16], noto ai Romani come successione.

La legge albanese riconosceva come erede solo il figlio maschio e non la figlia, escludendo il figlio illegittimo o quello nato in seconde nozze dalla madre. L'eredità spettava quindi solo al discendente del cespite o del sangue e non a quello di latte o delle figlie. La donna non ereditava né dai suoi parenti né dal marito, per impedire che: i suoi figli andassero ad insediarsi nella casa dello zio privo di eredi; che i parenti della donna si impossessassero dell'eredità del marito che moriva, senza lasciare figli o discendenti; che la stirpe di una Bandiera si mescolasse con quella di un'altra Bandiera.
Se si estingueva la discendenza mascolina di una famiglia, né le figlie, né i loro figli, avevano diritto all'eredità. La legge riconosceva a chi restava orfano il diritto all'eredità nel momento in cui, compiuti 15 anni d'età, era libero da ogni tutela e cosciente delle proprie azioni. Nel caso in cui si estingueva la famiglia e non vi erano discendenti diretti, veniva considerato come legittimo erede il cugino più prossimo che apparteneva al fis dell'estinto. Nell'istituto della successione albanese, il padre, che aveva figli maschi non poteva fare testamento, in quanto il testamento poteva essere fatto solo in favore della Chiesa. Per fare il testamento, in favore della Chiesa, erano necessari dei requisiti: essere sano di mente, essere libero dal fare lasciti, non essere intimorito da qualsiasi genere di minaccia. Esistevano due forme di testamento: lasciti con obblighi, quando il testamentario imponeva delle condizioni alla Chiesa; lasciti senza obblighi, quando il testamentario lasciava alla Chiesa alcuni possessi senza imporre condizioni, in tal caso il lascito equivaleva ad una donazione o promessa, che se non mantenuta rappresentava un disonore nei confronti della comunità. Il testamento veniva fatto alla presenza dei congiunti, dei Vegliardi (saggi del villaggio) e dei testimoni, e consisteva nel firmare la carta testamentaria. Il padre, finché in vita, era libero di donare alle figlie soldi, suppellettili e simili, morto il padre, le figlie non potevano pretendere i doni promessi in vita dal padre, perché, in questo caso, sarebbero entrate in possesso dei beni come eredi, e la legge escludeva le donne e le figlie dall'eredità.

Nell'esperienza giuridica romana, con il termine eredità o hereditas, si indicava il complesso di beni trasmissibili dopo la morte del soggetto. Dapprima l'hereditas fu limitata ai soli oggetti della famiglia del defunto, poi fu estesa alla pecunia cioè alle res nec mancipi, successivamente, nell'hereditas furono incluse anche le obbligazioni gravanti sul pater familias morto. Si distingueva nell'hereditas: una successione legittima, regolata dalla legge (vocatio ab intestato); una successione testamentaria (vocatio ex testamento); una successione necessaria (vocatio contra testamentum); La vocatio ab intestato, nel sistema romano[17], si presentava come sostitutiva della vocatio ex testamento, e aveva luogo nei rari casi in cui mancava il testamento, si basava su vincoli gentilizi e non di sangue. La donna romana, a differenza di quella albanese, partecipava all'eredità, succedendo nella stessa linea dei discendenti maschi. Per i Romani, il testamento è il più antico negozio giuridico, il quale, anche nell'evoluzione del diritto romano, ha sempre conservato, nelle sue linee essenziali, l'originaria struttura, imprimendo a tutto il sistema successorio romano un carattere proprio[18]. Nell'epoca classica, infatti, si presentava come un atto assai complesso, che poteva contenere sia disposizioni patrimoniali, sia disposizioni extrapatrimoniali, ma comunque seguivano l'atto fondamentale del testamento: la nomina dell'erede, senza la quale il testamento non esisteva. La caratteristica del sistema successorio romano è data dal fatto che il pater familias era libero di designare chi voleva, non essendo legato dalla presenza dei figli o dei congiunti, mentre nel sistema albanese, come si è detto, il testamento era utilizzato solo per fare lasciti alla Chiesa, e la successione aveva luogo solo all'interno della famiglia.

2.4 L’istituto della compra-vendita nella tradizione giuridica albanese e nella tradizione giuridica romana.

La compra-vendita era considerata per il Kanun una forma di commercio, che poteva avvenire incondizionatamente, o condizionatamente, in presenza di testimoni, o per mezzo della caparra[19]. La caparra era considerata una forma di anticipo in moneta, prima che la cosa acquistata era materialmente presa dal compratore. La caparra una volta presa, non poteva essere restituita più e vincolava le parti. Se il compratore si pentiva dell’acquisto, perdeva la caparra; se il venditore invece, cedeva la cosa ad un altro compratore, l’atto era considerato illegale. In giudizio poi i giudici, costringevano il venditore a riprendere la cosa venduta e a darla al primo compratore che aveva già dato la caparra. Se il venditore negava di aver ricevuto la caparra e il compratore non aveva testimoni, la legge obbligava il venditore a giurare. Se il venditore giurava, il compratore perdeva automaticamente la caparra, in quanto il codice considerava il giuramento come un mezzo per liberarsi da un’accusa o imputazione. Se l’acquisto era condizionato ma la cosa risultava difettosa, veniva restituita al padrone, se invece la cosa acquistata risultava rubata, veniva restituita al venditore che, dopo averla restituita al legittimo proprietario, doveva restituire al compratore la moneta presa.
Nella vendita di un terreno[20], dovevano essere avvisati i parenti, la fratellanza e la stirpe del venditore, qualora questi se ne disinteressavano, il padrone era libero di vendere il terreno a chi avesse voluto. Il codice stabiliva questo sistema per assicurare che la proprietà restasse sempre a persone appartenenti allo stesso villaggio, ed evitare così l’inserimento di gente estranea al villaggio. La vendita era considerata, perciò, illegale se avveniva senza aver avvisato i parenti, la fratellanza, la stirpe, il confinante. Questi avevano infatti il diritto di far annullare la vendita. Il compratore in questo caso, doveva restituire il terreno; la vendita era considerata ugualmente illegale e annullata, anche se al momento dell’acquisto, il venditore avesse garantito la legalità dell’atto. Se il terreno era venduto con la condizione che non fosse rivenduto ad altri, non poteva essere alienato se prima non era riofferto al primo venditore; per questo il compratore non poteva rivenderlo ad altri se prima non lo avesse offerto al primo venditore. Se il terreno era venduto senza condizioni, chi lo comprava era libero di venderlo a chi avesse voluto. Dopo aver stipulato il contratto, si usava che chi comprava offriva da bere l’acquavite.
Il codice antico disciplinava anche il pagamento in natura[21], usato al posto della moneta. Questa forma di pagamento era utilizzata anche in caso di multe, danni e sangue cioè in caso di omicidio; il codice più recente, prevedeva che in caso di omicidio il pagamento poteva avvenire anche con le armi.
Nella tradizione giuridica romana, la compra-vendita (emptio venditio) in origine era reale[22], consisteva cioè nello scambio della cosa contro il prezzo, ma che ben presto fu concepito come un contratto consensuale tra venditore (venditor) e compratore (emptor) in base al quale nascevano: l’obbligo[23] del venditor di procurare all’emptor la piena disponibilità di una cosa fino a quando non ne avesse acquistato la proprietà; l’obbligo dell’emptor di far avere al venditor la somma di denaro (pretium).
Mentre nel Kanun la compra-vendita è disciplinata in maniera pratica per dare delle regole di comportamento alle popolazioni delle montagne, nell’esperienza romana è considerata come un vero e proprio contratto i cui elementi erano il consenso delle parti e la causa, cioè realizzare lo scambio corrispettivo della merce e del prezzo versato.
Oggetto di vendita potevano essere cose mobili o immobili, o i complessi patrimoniali (hereditas, o i bona del fallito). Era anche ammessa la compra-vendita di cosa altrui (Ulpiano D. 18. 1. 28: Res alienam distrahere quem posse nulla dubitatio est: nam emptio est et venditio : sed res emptori auferri potest.) o la compra-vendita di cosa futura ( Pomponio D. 18. 1. 8: Nec emptio nec venditio sine re veneat potest intellegi et tamen fructus et partus futuri recte ementur ut, cum editus esset partus, iam tunc, cum contractum esset negotium, venditio facta intellegatur: se si id egerit venditor, ne nascatur aut fiant, ex empto agi posse) o la compra-vendita di cose di genere, salvo che se ne specificasse in contratto l’appartenenza ad un ambito determinato (Gaio D. 18. 1. 35. 7: …si ex doleario pars vini venierit, veluti metretae centum, verissimum est quod et constare videtur antequam admetiatur, omne periculumad venditorem pertinere). Il prezzo era costituito da denaro contante doveva essere corrispondente al valore della merce, effettivo cioè non simulato, e certo cioè determinato in una cifra esatta. Anche nel diritto romano, vi era la caparra o arra, istituto derivante dal diritto greco. Fu utilizzata a scopo di prova, cioè una delle due parti dava all’altra una cosa di pregio o una somma di denaro, allo scopo di rendere evidente l’avvenuta conclusione del contratto e le obbligazioni reciprocamente assunte. Nell’esperienza albanese invece, come si è detto, la caparra era un mezzo di impegno alla vendita e all’acquisto, nell’esperienza romana l’impegno al reciproco acquisto era dato dalla fattispecie contrattuale.

2.5 I delitti infamanti e il sistema giudiziario penale previsto nel Kanun. Cenni sull'evoluzione romana del sistema giudiziario penale.

Il Kanun tra le varie norme, conteneva alcune, che possono oggi definirsi come la parte più immediatamente penalistica del codice. Tra i delitti considerati particolarmente gravi[24], vi erano il furto e il tradimento dell'ospite, perché mettevano in pericolo l'equilibrio della società che si basava sul concetto di onore elevato al rango di fede, che poteva spingere anche a conseguenze estreme come l'uso della violenza per punire coloro che avevano commesso tali azioni, anche se il più delle volte di fronte a tali reati, la pena comminata dalla comunità era la multa. Il Kanun regola, però, soprattutto la vendetta che è provocata dall'omicidio di una persona. Colui che commetteva un omicidio doveva avvisare la famiglia dell'ucciso per chiedere una tregua, che era il periodo di tempo concesso dalla famiglia che aveva subito la perdita e durante la quale essa dava la parola o meglio garantiva di non uccidere a sua volta il colpevole. Il Kanun considerava la tregua come un dovere, degno degli uomini forti. Chi uccideva un individuo era soggetto ad una multa di sei borse in moneta, cento montoni e mezzo bove, mentre il prezzo della ferita valeva metà della pena. Se l'uccisione di un individuo avveniva nel suo villaggio, l'omicida doveva fuggire dal paese con tutti i maschi di casa per evitare il pericolo di essere uccisi. Erano esclusi dalla vendetta del sangue le donne e il sacerdote. Secondo il codice antico, soltanto l'omicida cadeva nella vendetta del sangue, mentre il codice posteriore abbracciava nella vendetta del sangue o del taglione, tutti i maschi della famiglia dell'omicida, anche se in fasce. La vendetta del sangue poteva realizzarsi entro le prime 24 ore dall'avvenuta uccisione, spirate che erano le 24 ore, la famiglia dell'ucciso doveva dare la garanzia della tregua. Il Kanun riconosceva legittimo l'uso della violenza distruttiva perché accettava l'idea dell'omicidio risarcitorio "testa per testa, o sangue per sangue". Strettamente legato ai delitti era il sistema giudiziario[25], che ci mostra come il potere nelle montagne albanesi era organizzato in maniera gerarchica e piramidale, perché basato sulla concezione stratificata della società. La funzione di giudice era svolta dai Vegliardi, scelti fra i più anziani della fratellanza o fra i capi delle stirpi, la loro parola era la base del diritto. Senza di loro non poteva essere fatta nessuna nuova legge, né alcuna causa. La funzione di Vegliardo poteva essere svolta anche da coloro che avevano una lunga esperienza nel giudicare e deliberare. La carica di Vegliardo poteva essere ereditaria o elettiva, in quest'ultimo caso erano detti "strapleq", che svolgevano cause di secondo ordine. Le questioni più gravi erano svolte sia dai Vegliardi che dai Capi della Bandiera che non potevano decidere né multare senza l'assistenza dei Vegliardi e Sottovegliardi del villaggio del colpevole. Il giudizio aveva inizio dopo che le parti contendenti erano state avvisate e avevano consegnato il pegno d'arbitraggio chiamato "pegno di consenso e di sottomissione". Il giudizio fatto senza pegno era nullo. Le parti, infatti una volta consegnato il pegno, non potevano ritirarlo più. Le spese del giudizio erano a carico dei contendenti, ed erano stabilite in base alla gravità della causa. I Vegliardi prima di iniziare il giudizio avevano il dovere di fare un giuramento su un oggetto sacro: "Per questa cosa sacra, che vigilerà su di me e sul mio comportamento, giuro che non giudicherò con ripieghi e con parzialità e, fin dove mi detterà la mente e la coscienza non farò torto alla legge e alla giustizia". Se i querelanti non ritenevano giusta la sentenza era prevista una forma di appello, che permetteva di far giudicare la causa da altri Vegliardi. Se i nuovi Vegliardi ritenevano ingiusta la sentenza fatta dai primi, prendevano da costoro i pegni dei querelanti, e i primi giudici, oltre a perdere il diritto di essere pagati dai querelanti, erano obbligati a pagare i nuovi Vegliardi. I Vegliardi potevano essere sostituiti fino a tre volte, dopodiché, la causa doveva essere devoluta ai Capi e infine alla casa di Gjomarkai, considerata la base del codice. Al di là di quella casa non si ammetteva appello. Il codice chiamava "Porote" o "Poronike" quelle persone designate dai giudici come Giurati, affinché giurassero in favore di un imputato per liberarlo dall'accusa. I Giurati dovevano avere dei requisiti: essere persone che non avessero mai giurato falsamente, che non fossero in astio né contro quelli che accettavano il giuramento (parti in causa) né contro quelli che giuravano, che non fossero venali, che non fossero donne perché escluse dalla legge. I Giurati non giuravano prima dell'imputato. La giuria aveva il diritto di fare tutte le indagini e di esaminare l'imputato prima di giurare per evitare un giuramento falso, se invece la causa risultava troppo complessa, le indagini potevano essere rinviate fino a sei mesi o a volte anche per anni. Se i Giurati, riunitisi, partecipavano al convito detto del giuramento, e offerto dall'accusato, l'imputato era automaticamente riconosciuto innocente e ai Giurati non restava che giurare, mentre al contrario se i Giurati si astenevano dal mangiare, l'imputato era considerato colpevole. Nel giorno fissato per il giuramento, questo era fatto secondo un ordine stabilito, giurava per primo l'imputato poi i suoi parenti, seguivano i giurati scelti dai giudici ed in ultimo quelli scelti dall'imputato. Altre figure importanti nel processo erano, il Delatore cioè colui che basandosi su indagini fatte manifestava il reato di qualcuno, e i giudici del Delatore, che svolgevano d'ufficio un'inchiesta sulle affermazioni del delatore stesso. Il codice disciplinava le pene da applicare in base alla gravità del reato[26]:
- l'incendio della casa del reo;
- la distruzione del raccolto;
- l'esilio della famiglia;
- la fucilazione;

Va aggiunto che nei casi più gravi si applicava la distruzione totale della casa e l'allontanamento definitivo del reo e della sua famiglia dal villaggio. Tali pene si infliggevano a colui il quale calunniava, percuoteva o uccideva il parroco, uccideva l'ospite a tradimento, uccideva per vendetta uno qualunque della fratellanza, uccideva e nascondeva il delitto, uccideva durante il periodo di tregua, dava ospitalità ai delinquenti della Bandiera.
Un mezzo pratico per evitare il processo era il giuramento liberatorio, con il quale l'imputato si purificava dalle sue colpe toccando con mano un oggetto sacro e invocando il nome di Dio a testimonianza della verità[27].
Anche nella primitiva esperienza giuridica romana, nella repressione dei crimini raramente la comunità interveniva perché restava devoluta alla reazione degli offesi, talora temperata dalla legge del taglione e dalla consuetudine del riscatto. Soltanto in casi particolari, nei quali il fatto criminoso appariva come infrazione alla pax deorum, alla reazione di pace e di amicizia che doveva sussistere tra la civitas e suoi dei, lo "stato" interveniva per ristabilire l'ordine turbato. E poiché della pace con gli dei era naturale custode il rex, a lui spettava l'applicazione di idonee sanzioni di natura religiosa nei confronti di chi, con il suo comportamento aveva causato l'esposizione dell'intero gruppo alla collera divina. Ampie tracce di un sistema punitivo fondato sull'espiazione sacrale sono contenute nelle Leges regiae che rappresentano le fonti più antiche del diritto criminale romano. Tali leggi non configurano un sistema organico di norme e lasciano ampio margine da un lato alla libera coercizione del monarca, dall'altro alla persecuzione privata del gruppo offeso: generalmente prescrivono o vietano il compimento di atti, enunciando le sanzioni di carattere sacrale a cui il trasgressore si espone, o regolano l'esercizio della vendetta da parte di chi è ad essa legittimato dal costume[28]. Il passaggio graduale dall'autotutela alla vera e propria tutela statale[29], cioè dalla difesa del diritto operata direttamente dal soggetto leso alla difesa operata dagli organi statali di giurisdizione, si ebbe dopo il transito dall'età classica a quella postclassica. L'azione esercitata contro il delinquente era qualificata come actio poenalis[30] spettante al soggetto leso e la pena era essenzialmente legata all'autore dell'illecito, tutto ciò era garantito da organi giudiziari statali che esercitavano una giurisdizione extra ordinem.

2.6 Conclusioni.

Un raffronto tra la tradizione giuridica albanese e la tradizione giuridica romana è poco sostenibile, perché la prima è caratterizzata da un diritto consuetudinario, cioè da un insieme di leggi tramandate oralmente, volte a disciplinare tutti gli aspetti della vita delle genti delle montagne, che per secoli sono rimaste isolate, chiuse nel loro mondo, mentre la tradizione giuridica romana, che ha radici antichissime, non rimanendo isolata ha potuto evolversi, fino a diventare una base fondamentale per lo studio del diritto, e la lingua giuridica del mondo civile.
Gli istituti privatistici romani hanno infatti una struttura e delle caratteristiche proprie inconfondibili con quelli disciplinati dal Kanun. Una certa affinità tra diritto romano e Kanun, è riscontrabile solo nell’organizzazione della famiglia, perché in entrambi si parla di una famiglia a struttura piramidale, i cui membri non hanno una loro personalità civile, giuridica e sociale se non attraverso il capofamiglia o pater familias. In entrambi i diritti, il capofamiglia ha il potere assoluto sia sugli individui sia sulle cose (res), basti pensare al fatto che aveva anche il potere di vita e di morte sui figli. Per ciò che riguarda, invece, la posizione della donna, mentre nel Kanun è considerata qualcosa di superfluo, priva di diritti sociali sia all’interno che all’esterno della famiglia, che viene materialmente acquistata dal marito, la donna romana pur essendo considerata soggetto giuridico limitato nei rapporti strettamente giuridici, nei rapporti interfamiliari gode di grande autorità e prestigio.
Tutti gli istituti giuridici disciplinati perciò dal Kanun devono essere considerati come regole di vita pratica per dare al popolo albanese una legge stabile, mentre quelli disciplinati dal diritto romano rappresentano vere e proprie norme scritte, che sono diventate il fondamento dei moderni istituti giuridici.

[1] Gaetano Dammaco, Società Shqipetare, Kanun ed esperienza giuridica, in Pane sale e cuore

di Emmanuela Del Re, Frank Gustincich, Editrice Argo 1993, pp. 21-22.

[2] Kanun, basi morali e giuridiche della società albanese, trad. di Padre Paolo Dodaj, intr. e cura

di Patrizia Resta, Besa editrice, Lecce 1996, pp. 13-14.

[3] Kanun op. cit., pp. 15-23.

[4] Gaetano Dammaco, op. cit., p. 22.

[5] La Chiesa, in Kanun op. cit. , pp. 27-31.

[6] V. Giuffrè, Il diritto dei privati nell’esperienza romana, Jovene editore 1993, cap. II, pp. 11-

13.

[7] A. Guarino, Diritto privato Romano, nona edizione, Jovene editore Napoli 1992, pp. 151-173.

[8] La famiglia in Kanun op. cit., pp. 35-38.

[9] E. Del Re, F. Gustincich, op. cit., p. 29.

[10] Il matrimonio in Kanun op. cit., pp.41-57.

[11] Vincenzo Giuffrè, op. cit., pp. 29-30.

[12] A. Guarino, op. cit., p. 446 ss.

[13] V. Giuffrè, op. cit., pp. 341 ss.

[14] V. Giuffrè, op. cit. pp. 46-48.

[15] E. Volterra, Diritto romano e diritto orientale, ristampa, Jovene, Napoli 1983, pp. 123-124.

[16]L'eredità in Kanun op. cit., pp. 61ss.

[17] E. Volterra, op. cit., pp. 164 ss.

[18]Bonfante, Scritti giuridici vari, vol. I, p. 170.

[19] Il commercio in Kanun op. cit., pp. 91-92.

[20] La vendita del terreno in Kanun, op. cit., pp. 92-93.

[21] Il pagamento in natura in Kanun op. cit., p. 95.

[22] E. Volterra, op. cit., p. 130.

[23] A. Guarino, op. cit., p. 884 e ss. .

[24] I delitti infamanti in Kanun op. cit., pp. 119 ss.

[25] Codice giudiziario in Kanun op. cit., pp.141 ss.

[26] Kanun op. cit., pp.157-158.

[27] Il giuramento in Kanun op. cit., pp. 99-100.

[28] M. Talamanca, op. cit., pp.35-36.

[29] A. Guarino, op. cit., p. 182.

[30] A. Guarino, op. cit., pp. 975-977

(Elaborato pervenutoci- test: http://www.geocities.com/liavasi/2.htm )